La storia del complesso rapporto tra un famigerato truffatore australiano e il ghost writer incaricato di scrivere la sua autobiografia, che costituisce la trama dell’ultimo romanzo di Richard Flanagan, Prima persona (traduzione Alessandro Mari, Bompiani, pp. 427, euro 20,00) si potrebbe leggere come un anacronistico prequel o una romanzesca nota esplicativa all’intera opera dell’autore. Il problematico confronto tra menzogna e verità che percorre tutta la produzione dello scrittore tasmaniano si giustifica, infatti, alla luce della componente autobiografica che sostanzia la vicenda: all’inizio della sua carriera, nel 1991, a Flanagan fu affidato il compito di aiutare John Friederich, il più famoso truffatore australiano, accusato di aver frodato quasi 270 milioni di dollari al National Safety Council of Australia, a scrivere le sue memorie.
«Una truffa è solo un sogno, & … un sogno è pericoloso se ci credi troppo»: così concludeva il suo lungo racconto il narratore del capolavoro di Flanagan, La vita sommersa di Gould. A distanza di sedici anni, in Prima persona, scopriamo come – e perché – il sogno (tanto grottesco da dar luogo nella prima parte del romanzo a momenti di sfrenata comicità) possa trasformarsi in un incubo, sinistro e ossessivo. E se a tutta prima la storia dello scrittore fantasma manipolato dall’ingombrante oggetto della propria narrazione non appare particolarmente originale (torna alla mente, uno per tutti, il Ghost Writer di Robert Harris, reso celebre dall’adattamento cinematografico di Roman Polanski), la rivisitazione romanzesca del suo misconosciuto debutto narrativo offre a Flanagan l’opportunità per una serie di spunti sul rapporto tra bugia e verità, ma anche sulla natura dello storytelling e, quel che più affascina e sconcerta nel romanzo, sull’inquietante (e involontaria) simbiosi tra l’autore e il suo personaggio.

Esiti estremi di un gioco perverso
Le circostanze che spingono Kif Kehlman, l’autore fittizio della narrazione, ad accettare di scrivere l’autobiografia di Ziggy Heidl in sole sei settimane sono le stesse che portarono Flanagan a firmare un analogo contratto, e identico è il modo del tutto peculiare in cui i due scrittori vengono a contatto con i loro editori: tuttavia, l’inquietante sviluppo della trama porta alle estreme conseguenze il gioco perverso che sta alla base del rapporto tra ghost writer e truffatore. Laddove il primo tenta (senza successo) di costringere l’altro all’interno di una storia, quest’ultimo, sfuggendogli, lo trascina poco alla volta nel suo mondo, sino a farlo somigliare sempre più a se stesso. Per scrivere di Heidl – che non gli concede nulla di sé e anzi gli racconta solo episodi insignificanti, forse inventati e subito contraddetti – Kif deve lasciare che Heidl si impossessi di lui, fino a raggiungere una identificazione totale: «con ogni parola svaniva una parte di me». Inoltre, continua Kif, «era questo il suo metodo: lasciare che fossi tu a creare la bugia a partire dalla sua verità». Lo scrittore si fa, dunque, complice del truffatore, un individuo che «manifestava il bisogno quasi viscerale di possedere tutti quelli che incontrava. Certe volte somigliava più a un’infezione che a un essere umano». L’autobiografia, somma di invenzioni messe insieme a partire da pochi accenni a fatti non verificabili, sembra divenire, da ultimo, la prova di come lo scrittore, pur di diventare tale, abbia accettato di perdere una parte di sé, «un po’ di dignità e di orgoglio, o qualcosa di ancora più fondamentale», finendo per essere ostaggio e prigioniero dell’oggetto del suo racconto.

Così, mentre il comico-grottesco iniziale si stempera gradatamente scivolando verso un incubo alla Stephen King (si pensi alle situazioni raccontate in La metà oscura o Finestra segreta, giardino segreto), Flanagan offre una rilettura in chiave metanarrativa della propria esperienza giovanile, a partire dalla considerazione che, per poterlo costruire credibilmente, lo scrittore deve entrare nel personaggio, «essere lui in prima persona», non importa quanto odiosa questa situazione possa rivelarsi. Di fronte a Heidl che «contraddiceva le sue stesse bugie con bugie sempre nuove, poi contraddiceva le contraddizioni», Kif si rende conto che conciliare quelle contraddizioni non era la sua sfida: «era la tua, in quanto ascoltatore». Tutto sommato, per Heidl non c’è alcuna differenza tra l’arte della truffa e quella della scrittura: «Inventavo tutto. Ogni giorno, proprio come te. Come uno scrittore», spiega a Kif.

Tra le righe di questa storia, inizialmente comica, poi quasi orrifica, si nasconde una questione etica: è onesto «sviare il lettore dalla verità divertendolo»? Che senso ha inventare mondi in cui alla verità si sostituiscono bugie sempre più grandi? Mondi in cui trionfa il solipsismo della prima persona (del protagonista, dell’autore, del lettore che in essi si riconosce)?

È evidente che l’esperienza con John Friedrich e la stesura di Codename Iago, il libro che ne derivò, hanno lasciato un’impronta indelebile nel successivo lavoro di Flanagan: lo dimostra il fatto che il rapporto tra menzogna, illusione e verità è divenuto il fulcro della sua opera. Dalle considerazioni del protagonista del suo primo romanzo, Gli ultimi minuti di vita di una guida fluviale che, in punto di morte, si rende conto di come «in un’epoca dove le cose significano tutto e il contrario di tutto», al Dickens di Solo per desiderio che, dietro una maschera di razionalità assoluta, cela una passione del tutto irrazionale; dalla ballerina di lap dance della Donna sbagliata, «giunta a credere che il mondo fosse fondato per lo più su bugie e inganni» all’ex-aguzzino giapponese che, nella Strada stretta verso il profondo Nord, arriva a dubitare che la «bontà cosmica» dell’imperatore, nel cui nome ha compiuto le più orribili nefandezze, altro non fosse che «una maschera indossata dal male», l’opera di Flanagan è costellata di riprese e reinterpretazioni del conflitto morale intrinseco al rapporto tra lo scrittore fantasma e il suo soggetto. Ma perché solo ora l’esigenza di mettere sulla carta le vicende legate al suo esordio narrativo? La risposta è implicita nell’epilogo di Prima persona, ambientato ai nostri giorni e così sintetizzato dal protagonista: «Due millenni si avvicendarono, le Torri Gemelle caddero per colpa di una fiction diventata realtà omicida, e io feci carriera nella produzione di reality contaminando la realtà con la fiction».

Una storia fin troppo attuale
Come La donna sbagliata, Prima persona è una cautionary tale, una storia che dovrebbe servire da ammonimento. Stiamo piombando a capofitto nel mondo di Friedrich, lascia intendere, da ultimo, Flanagan. Media e social, mentre incoraggiano gli individui a trasformarsi in eroi delle proprie esistenze, ne controllano ogni mossa, lasciano che trionfi il solipsismo. E intanto, alla verità si sostituisce l’opinione, e si baratta la libertà individuale con qualche improbabile menzogna. «Il tempo sfianca ogni cosa, forse addirittura se stesso, e può darsi che il nostro perverso futuro fosse già lì insieme a noi», riflette Kif al termine del romanzo, per poi concludere: «Considerato tutto quello che è venuto dopo Ziggy Heidl … posso dire solo questo: niente mi ha sorpreso».