«Ogni museo deve essere visto come il teatro di una sfida memoriale, politica ed economica». Jean-Loup Amselle, antropologo e etnologo francese, specialista di studi sulle culture africane (suo il libro Logiche meticce, pubblicato da Bollati Boringhieri, e il pamphlet Contro il primitivismo edito in Italia dalla medesima casa editrice, dove indagava gli errori e le fratture di senso della sua stessa disciplina) non nutre dubbi e sfodera una posizione radicale nei confronti dell’allestimento di opere d’arte o manufatti in una qualsiasi collezione – etnografica ma anche contemporanea. A contare, molto più del contenuto che diventa «arte» solo quando trasmigra in occidente essendo in genere frutto di un’eredità coloniale, sono oggi le architetture impressionanti dei musei. È la loro forma monumentale a individuare e a segnalare lo spirito del tempo.

A fornire una prova convincente delle contrapposizioni che nascono tra le narrazioni nazionali messe in gioco nei «templi della storia», ci pensa il suo ultimo volume Il museo in scena. L’alterità culturale e la sua rappresentazione negli spazi espositivi (Meltemi, pp.115, euro 14), che l’autore presenterà oggi a Pistoia, nel corso di un incontro con il pubblico. L’occasione per ascoltare la voce critica di Amselle è offerta dall’ottava edizione del festival Dialoghi sull’uomo. «La nozione di museo e di contemporaneo sembrerebbero antitetiche a priori – afferma l’antropologo nel suo libro – Il museo è un luogo di conservazione, la dimora patrimoniale per eccellenza, destinata a farsi testimone dell’arte o delle culture dei secoli passati. Ma questa pulsione patrimoniale è cresciuta negli ultimi decenni con l’avvento di quella che definirei ’la società di conservazione’». E se non esiste possibilità di archiviare tutto ciò che è contemporaneo, per Jean-Loup Amselle a inverarlo, a renderlo tale ci riescono gli allestimenti, il programma o la storia che viene suggerita in una determinata sala. La società diventa semplicemente un brand di produzione, a memoria futura.

La realizzazione di un museo assume su di sé un rischio: essere la gabbia, l’imposizione dall’alto che circoscrive il nostro immaginario e che tradisce la verità. Eppure lei ha definito il nuovo Louvre di Abu Dhabi, che aprirà in autunno, un luogo «universale». Ci può spiegare in che senso?
Il Louvre Abu Dhabi si prefigge come scopo quello di essere «il primo museo universale del XXI secolo nel mondo arabo». E, in effetti, lo è, in una certa misura proprio lì dove incoraggia il dialogo – a differenza di una istituzione come il Quai Branly – fra le culture del mondo, compresa quella occidentale. Ma, come testimonia l’artista americano-libanese Walid Raad nel ciclo di opere relative al progetto Scratching on things I could disavow,  non può esserlo totalmente perché intrappola le arti islamiche in una gabbia museale. Siamo di fronte a una «eterotopia», come direbbe Foucault, da cui si deve cercare di fuggire per acquisire un significato del tutto libero.

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Spesso un museo nasce dall’ossessione di un collezionista, dal suo desiderio compulsivo di raccolta. Come può quel «sogno individuale» trasportarci dentro una dimensione più grande, trasformandosi in storia collettiva?
Se alcuni musei sono certamente legati a uno o più personaggi – come per esempio il Pigorini di Roma, lui stesso erede del cabinet de curiosité di Athanasius Kircher, bisogna sottolineare che altri – come il Louvre, il vecchio Musée de l’Homme, Quai Branly o ancora il British di Londra – sono in gran parte il prodotto di un’impresa imperiale: ospitano molte opere che oggi sono rivendicate dai paesi ex colonizzati e/o saccheggiati del loro patrimonio.

Pensa dunque che la storia raccontata in un museo possa essere solo un prodotto di fiction, una specie di romanzo a tema che si dipana di fronte agli occhi dei visitatori?
Come cerco di spiegare nel mio libro, il museo attuale è sempre un’opera d’arte costruita da archistar, tanto per fare qualche nome – Ieoh Ming Pei, Jean Nouvel, Frank Gehry, Norman Foster, Tadao Ando, Zaha Hadid. Il pubblico lo viene ad ammirare anche indipendentemente dal suo contenuto, da ciò che espone. E, come ogni opera d’arte, questo tipo di museo presenta anche una sua «proposta»: vuole intessere una narrazione e questa storia oggi è principalmente postcoloniale. Tutti i musei, infatti, non soltanto quelli definiti «sociali», non possono non considerare quello che io chiamo «il dovere postcoloniale», una specie di obbligo nel mostrarsi contemporanei affrontando temi quali lo sfruttamento, il razzismo, l’immigrazione, etc. Se si basano su collezioni più classiche, possono sempre aspirare a una loro metamorfosi attraverso le esposizioni temporanee.

Negli ultimi tempi, c’è stata una proliferazione di «musei dell’uomo» (Marsiglia, Lione, Milano) : qual è la sua opinione al riguardo?
Purtroppo non conosco quello milanese, ma ho visitato il Mucem di Marsiglia e il Musée des Confluences di Lione. Entrambi condividono lo stesso territorio di caccia, sono in parte soggetti concorrenti. Il Mucem marsigliese, però, mi è sembrato più interessante perché mostra un maggiore impegno in direzione di una politica transmediterranea, mentre quello di Lione ha un côté bric-à-brac, da gabinetto delle curiosità, che mi procura uno stato di disagio.

Ogni sala museale evidenzia un problema con temporale: lì dentro tutto risulta essere contemporaneo. Non è una visione che può creare disorientamento?
Sì, è vero. Questa volontà di rendere tutto moderno, simultaneamente, che contagia molti musei provoca un effetto di affaticamento: è lo stesso che ci troviamo a sperimentare quando ci aggiriamo tra le opere d’arte contemporanea. Le mostre hanno un certo appeal, sono accattivanti, ma luoghi classici, come il museo d’Orsay, dovrebbero concentrarsi sulla loro specificità, in questo caso l’Impressionismo. Mi viene da pensare a una rassegna come Masculin/Masculin, l’homme nu dans l’art de 1800 à nos jours... È l’effetto della crescente privatizzazione dei musei e della loro necessità di trovare donatori per poter finanziare il loro stesso funzionamento.

Il Museo dell’innocenza dello scrittore turco Pamuk, a Istanbul, non ha criteri scientifici, imbastisce un racconto di pura invenzione, è soprattutto un teatro delle nostre passioni. Come giudica questo tipo di luoghi?
Trovo interessante la proposta di Pamuk. E sono pienamente d’accordo con lui quando sostiene che i musei dovrebbero narrare alcune piccole storie individuali, anche se sono frutto di fantasia – come accade nel suo Museo dell’innocenza. Questo consentirebbe a ogni museo di sfuggire alla retorica delle grandi narrazioni nazionali o imperiali, come accade invece al Louvre o al British.