Rivoluzione popolare o colpo di stato? L’incertezza nel definire ciò che sta accadendo in Burkina Faso, dopo le proteste della settimana scorsa, le dimissioni del presidente Blaise Compaoré firmate venerdì scorso e il successivo annuncio di una fase di transizione guidata dall’esercito, non assilla soltanto la stampa estera ma permea anche il dibattito politico interno in questi giorni confusi.

«L’esercito ha confiscato la nostra rivoluzione», accusavano domenica scorsa i politici dell’opposizione chiamando a manifestare di nuovo per mantenere i vertici dell’esercito sotto pressione e rivendicare una transizione civile verso le prossime elezioni. Contemporaneamente, i rappresentanti del Balai Citoyen (il principale soggetto organizzato dietro le proteste recenti) ribadivano al contrario il loro sostegno – per quanto vigile – a una transizione guidata dall’esercito e sospettano i partiti dell’opposizione, effettivamente deboli e fino a poco tempo fa molto prudenti nei confronti del regime di Compaoré, di volersi appropriare di un movimento che non hanno essi stessi provocato.

Senza dubbio, la fine improvvisa del “lungo regno” di Compaoré, salito al potere dopo l’assassinio di Thomas Sankara 27 anni fa, è dovuta a una mobilitazione popolare senza precedenti. Il regime aveva già vissuto momenti difficili, in occasione delle proteste che seguirono l’assassinio del giornalista indipendente Norbert Zongo nel 1998, e più di recente con l’ammutinamento di numerosi ufficiali nella primavera del 2011, quando Blaise – come è comunemente chiamato l’ormai ex-presidente – fu costretto ad abbandonare il palazzo presidenziale e rifugiarsi per alcuni giorni nella sua città natale. In entrambi i casi, le crisi erano progressivamente rientrate. Questa volta, qualcosa è cambiato: «Da alcuni anni, il malcontento aumenta progressivamente – spiega Mathieu Hilgers, antropologo all’università di Bruxelles e studioso di politica locale e opposizione in Burkina Faso –. Questo è dovuto prima di tutto alla congiuntura economica: il Burkina Faso soffre delle conseguenze della crisi finanziaria mondiale, ma anche dell’impatto economico dei conflitti regionali, come la recente guerra civile in Costa d’Avorio. Tutto ciò ha contribuito a rinforzare le frustrazioni e il senso di precarietà della popolazione. Un secondo fattore è il completamento del decentramento amministrativo (risalgono al 2006 le prime elezioni comunali che hanno interessato l’insieme del territorio nazionale, ndr), che ha contribuito a trasformare il rapporto delle popolazioni alla politica. L’opportunità di esercitare il diritto di voto e di interloquire direttamente con i poteri locali ha permesso agli elettori di misurare il loro impatto, e ha fatto emergere una molteplicità di rivendicazioni in tutti i settori».

Le due iniziative governative più contestate, ovvero il progetto di istituzione del senato (da subito percepito come un tentativo per rafforzare il potere del governo e criticato per l’inutile dispendio di finanze pubbliche) e il tentativo di riforma dell’articolo 37 della costituzione per permettere a Blaise di candidarsi nuovamente nelle elezioni previste per il 2015, hanno agito da propulsore del malcontento. I militanti del Balai Citoyen organizzano manifestazioni contro i piani del governo da circa un anno, e l’imminenza del voto parlamentare sulla riforma costituzionale ha fatto precipitare gli eventi, portando la partecipazione alle manifestazioni della settimana scorsa a livelli senza precedenti. «Nel 2011 – continua Hilgers – hanno manifestato le forze dell’opposizione, i sindacati, i produttori di cotone, i militari, la polizia, i piccoli commercianti, gli insegnanti… ma si trattava di manifestazioni corporative. Oggi, paradossalmente, Blaise ha unificato la gente contro di lui: il tentativo di modifica costituzionale ha avuto un effetto federatore sulle contestazioni. I manifestanti hanno superato le divisioni e gli interessi particolari per passare a formulare rivendicazioni collettive».

Il linguaggio della contestazione riflette l’ambiguità delle trasformazioni politiche in corso. Da un lato, l’opposizione parlamentare rivendica la difesa della costituzione e contrasta, in nome della legalità democratica, i tentativi dell’esercito di prendere in mano la transizione. Dall’altro, molti manifestanti parlano un linguaggio più “rivoluzionario” e si ispirano esplicitamente all’eredità di Thomas Sankara, alla guida del governo tra il 1983 e il 1987. Nonostante i partiti che oggi si ispirano formalmente all’ideologia sankarista godano di un consenso elettorale molto ristretto, Sankara resta un riferimento essenziale nell’immaginario delle mobilitazioni giovanili, e la sua eredità è percepita come positiva da una larga parte della popolazione. Nelle sue dichiarazioni pubbliche, il colonnello Isaac Zida (ex-numero due della guardia presidenziale, attualmente a capo della fase di transizione) ha incoraggiato tale linguaggio, ribattezzando la Place de la Nation come “piazza della Rivoluzione” e promettendo assemblee pubbliche in cui l’esercito tratterà con le “forze vive” della nazione. Alcuni sostenitori di questa linea sembrano interpretare l’ostinazione dei politici di opposizione nel difendere la costituzione come un appiattimento sul linguaggio tecnicistico e solo formalmente democratico che Compaoré avrebbe introdotto dagli anni ’90 con la cosiddetta “rettifica” della rivoluzione, volta a rassicurare le potenze occidentali dopo la destabilizzazione sankarista.

Resta tuttora una grande incertezza sulla durata e la direzione che prenderà questo periodo di transizione. Nelle ultime ore, le richieste delle cancellerie straniere e delle organizzazioni internazionali si sono fatte sempre più pressanti, e ieri Zida ha annunciato un rapido ritorno all’ordine costituzionale: il che potrebbe significare il passaggio del potere a un organo transitorio guidato da un civile. Sempre secondo Hilgers, «sembra tuttavia difficile pensare di fare a meno dell’esercito in questo momento, dato che si tratta dell’unica organizzazione strutturata e gerarchizzata nel paese». Un’istituzione con profonde divisioni interne, come si è visto nei primi momenti in cui la leadership ha oscillato tra il generale in pensione Kouamé Lougué, generale in pensione apprezzato dai manifestanti e protagonista di un rocambolesco tentativo di autoproclamazione in diretta televisiva domenica scorsa, e il capo di stato maggiore Honoré Traoré, giudicato troppo incerto e troppo vicino al regime precedente, per convergere infine su Zida.

L’accostamento proposto da molti commentatori tra la situazione in Burkina Faso e le primavere arabe potrebbe quindi essere in parte fondato. Sia per quanto riguarda l’entusiasmo generato da un’inaudita partecipazione popolare alle recenti manifestazioni, a proposito delle quali si è parlato di una nuova “piazza Tahrir” in versione burkinabé. Sia per il possibile effetto domino che il successo delle proteste potrebbe avere su altri governi dell’Africa subsahariana, dove è di attualità la questione della longevità dei presidenti in carica o la loro possibilità di ripresentarsi alle prossime elezioni. Ma anche e soprattutto, per il complesso rapporto tra protesta popolare e intervento dell’esercito nella gestione della crisi, che sarà un elemento centrale nell’incertezza degli scenari che si aprono.