Tutto inizia a Glasgow, COP26, novembre 2021. L’Italia aderisce in modo dimesso al BOGA, la Beyong Oil and Gas Alliance che «mette insieme Paesi che si sono impegnati a porre fine a nuove concessioni di licenze per esplorazione e produzione di petrolio e gas, o che hanno fatto passi verso quell’obiettivo». Aderendo come Paese “amico” e non come associato o come membro effettivo, di fatto l’Italia ha voluto avere mani libere perché sostanzialmente non «riconosce che porre fine all’estrazione di combustibili fossili è una componente urgente e cruciale nell’affrontare la crisi climatica» (il virgolettato è nel comunicato di presentazione del progetto BOGA del 12 novembre 2021). Un antefatto seguito nelle settimane successive da una serie di dichiarazioni del MiTE sulla necessità di affidare un ruolo centrale al gas nel processo di decarbonizzazione al 2050. Certo, occuparsi del gas in tempo di decarbonizzazione non risulta agevole, soprattutto per il ruolo capillare che tale fonte svolge nel nostro Paese, oggi prima tra le fonti energetiche primarie. Una fonte quasi totalmente importata dall’estero, con una fattura energetica di più di 70 miliardi di metri cubi all’anno e circa 300 miliardi di euro. Un’altra serie di affermazioni hanno allora riguardato la necessità dell’aumento della produzione interna di gas perché, è stato detto, rappresenterebbe una soluzione al caro energia. In realtà, su tale aspetto occorre fare una riflessione visto che l’alto costo del gas (0,88 €/Smc, dato Arera di questo trimestre con una variazione di +76,2% rispetto al trimestre precedente) è causato dalla domanda straordinaria di gas sul mercato internazionale, che influenza il costo dell’energia legato anche alla struttura del mercato elettrico europeo basato sul prezzo marginale, dove i produttori di elettricità sono remunerati con il prezzo della offerta massima entrata nel pacchetto giornaliero di produzione, quest’ultima tipicamente riferibile ancora al gas, utilizzato negli impianti termoelettrici meno efficienti. Un doppio salto: in un mercato così dipendente nella formulazione del prezzo dell’energia dal gas si vuole insistere sul suo uso anche in una prospettiva di sua eliminazione.

ECCO QUINDI CHE ARRIVA IL PITESAI, il piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee per le esplorazioni e le coltivazioni del gas sul territorio italiano, ufficialmente presentato l’11 febbraio scorso con l’obiettivo di raddoppiare la produzione di gas, da circa 3,5 a 6-7 miliardi di metri cubi l’anno. Stiamo parlando di piccole quantità, sostanzialmente ininfluenti in una logica geopolitica del mercato del gas, e anche sulla formulazione dei prezzi dell’energia.

LA PRODUZIONE NAZIONALE DI GAS, anche nella ipotesi di studio di poterla realizzare completamente subito, sarebbe in grado di far funzionare appena un terzo delle centrali termoelettriche esistenti caratterizzate da una potenza complessiva pari a 120 GW, e questo con costi non trascurabili. Ed avverrebbe solo per meno di dieci anni, alla fine dei quali la risorsa sarebbe esaurita. Queste considerazioni sono da mettere in relazione con il dato Terna che, a fine 2021, ha fatto registrato richieste di connessione alla rete in alta tensione per impianti rinnovabili per circa 200 GW, di cui 150 GW ascrivibili a fotovoltaico ed eolico, compresi 22 GW di progetti di eolico in mare. Un dato tre volte superiore al target da realizzare seguendo le indicazioni europee da qui al 2030. Aver sprecato gli ultimi cinque anni senza aver sostanzialmente realizzato nuovi impianti rinnovabili ha consegnato il Paese alle oscillazioni dei mercati energetici del gas, oltre ad aver avuto un peso significativo in termini di emissioni di gas climalteranti, riproponendo l’opzione fossile che altrimenti sarebbe stata naturalmente marginalizzata.

IL PITESAI CONTIENE UNA SERIE DI VINCOLI burocratici mal digeriti anche da Confindustria, che a suo parere bloccherebbero la produzione di gas nazionale. Ma soprattutto servono modalità di coinvolgimento dei territori e una individuazione operativa delle procedure contrattuali per le famiglie e le imprese che dovranno beneficiare, a prezzi più bassi, di questa autoproduzione. La definizione delle aree potenzialmente idonee e delle aree idonee risultano da una serie di analisi datate e confuso è il riferimento alla compatibilità con le attività esistenti nel territorio interessato secondo valutazioni di sostenibilità ambientale, economica e sociale. Serviranno analisi successive perché le regole riguardano istanze di prospezione e ricerca presentate da meno di dieci anni. In effetti, il Pitesai appare più come un atto di indirizzo generale che un vero e proprio piano regolatore, ancora troppo generiche risulterebbero infatti le aleatorietà procedurali e territoriali. Inoltre siamo di fronte ad un piano in contrasto con la recente revisione dell’articolo 41 della Costituzione, quello della iniziativa economica privata, e in controtendenza con il principio DNSH Do Not Significant Harm del PNRR, che alimenterà ricorsi e impugnative. Un altro aspetto controverso riguarda le royalties. In effetti quanto indicato dal Pitesai sul canone di superficie, limitato al 3% della valorizzazione della produzione ottenuta dal singolo concessionario nell’anno precedente, è un modo neanche tanto velato di aumentare il già cospicuo novero dei sussidi ambientalmente dannosi presenti sul nostro territorio.

IL PITESAI È UN PIANO INUTILE, con tempi di realizzazione lunghi e che introduce una gestione trentennale delle eventuali piattaforme, rallentando di fatto la soluzione vera ai problemi di decarbonizzazione e di costo dell’energia, quella di accelerare con l’installazione di impianti con fonti rinnovabili. Insomma, una soluzione debole che certifica il cerchiobottismo inutile del nostro Paese. L’urgenza imporrebbe alcune scelte immediate, semplici ma decise: semplificazioni nelle autorizzazioni delle rinnovabili, potenziamento degli strumenti per l’efficienza energetica, eliminazione dei sussidi alle fossili e, non ultimo, un piano nazionale energetico, ancora da vedere, in linea con gli obiettivi europei al 2030.