Per il poeta russo Iosif Brodskij la memoria ha in comune con l’arte la tendenza a selezionare, il gusto e la necessità politica del dettaglio in un rapporto sempre inquieto fra concezione estetica e funzione sociale, una similitudine che sembra incarnarsi alla perfezione nel cinema di Amos Gitai, e in modo particolare nella mostra-installazione Strade/Ways che Palazzo Reale a Milano ha ospitato fino al 1 febbraio. Regista «senza cittadinanza», dove solo il ricordo e la memoria riescono a dare il senso di un’identità nazionale e di una direzione verso il futuro, Amos Gitai ha trovato l’ennesima «free zone» della sua carriera nella Sala delle Cariatidi, e nelle ferite ancora visibili della Seconda Guerra Mondiale; un luogo perfetto, impregnato di cicatrici storiche e politiche, in grado di intrecciare tre diverse dimensioni temporali grazie a sequenze di film, tappeti antichi, fotografie e suggestioni sonore ma soprattutto punto di partenza, e non approdo successivo come di solito avviene, per il nuovo film Carpet, scritto insieme a Maria-José Sanselme, e in lavorazione proprio in questi mesi.

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Sono tre i percorsi che legano Storia e cultura del medio e del lontano Oriente alla vecchia Europa, e il primo, Lullaby to my Father, non poteva che essere dedicato alla figura del padre, Munio Gitai Weinraub, architetto del Bauhaus costretto a trasferirsi in Palestina a causa delle persecuzioni naziste dove dopo la guerra, diventerà una figura decisiva nella nascita dell’architettura del nuovo stato d’Israele – oggi è quasi dimenticato (a torto) forse per la sobrietà e l’invisibilità di uno stile lontano dall’epoca degli «eccentrici». Lullaby to my Father recupera le immagini dell’omonimo film, presentato fuori concorso alla Mostra di Venezia nel 2012, e incorpora le fotografie di Gabriele Basilico realizzate in Israele una ventina d’anni prima, proprio sui luoghi che hanno visto nascere l’architettura di Munio. Ed è ancora Basilico, grande amico di Amos Gitai, a traghettare verso la seconda strada, intitolata Talking to Gabriele. Le parole di una lunga conversazione fra il regista e il fotografo milanese, poco prima della sua scomparsa, si uniscono alle immagini scattate a est della Giordania, in occasione del viaggio di preparazione del film Free Zone del 2005.

Si giunge infine a Carpet, terzo e ultimo percorso, ancor più multi-sensoriale, dove il cinema passato, presente e futuro crea un triangolo di corrispondenze fra piani sequenza: su uno schermo di legno, il camera car del cortometraggio The Book of Amos del 2012, girato in una via di Tel Aviv dove un gruppo di attori, israeliani e palestinesi, incarna la parola del profeta Amos dialoga a pochi metri di distanza con alcune scene, sempre in piano-sequenza, del suo primo, Esther del 1985, concepito, sulla base della storia biblica della promessa sposa del re Assuero, come immenso «tablaeu vivant» nelle rovine del quartiere ebraico di Haifa. Vertice del triangolo il soffitto della Sala, con i colori e i suoni sempre di Esther, che si trasforma in un ideale schermo di proiezione, capace di agire nello spettatore come presa di coscienza della Storia europea e mediorientale, mentre all’interno di questo trittico di schermi, altre forme artistiche si intrecciano per tracciare la strada al prossimo film.

Le prime indicazioni sono le fotografie realizzate dal regista dei siti di prossima ambientazione del film, da Istanbul a Baku, in un viaggio in compagnia di Moshe Tabinina, collezionista d’arte tessile antica da molto tempo residente a Milano, che ha selezionato i più bei tappeti antichi trovati in Anatolia e in Persia. Un itinerario alla ricerca delle sensazioni del colore, della storia di volti che continuano la millenaria tradizione fra variopinti quartieri, strumenti dei laboratori artigiani, pigmenti pronti per animare tessuti, paesaggi collinari e strade fotografate dall’alto che richiamano i colori caldi degli ornamenti tessili, fieramente allestiti nella Sala dallo stesso Tabinina.

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Carpet racconta la storia di Rebecca, esperta di tessuti americana, acquirente a un’asta di un antico tappeto persiano. Quello stesso giorno conosce un certo Boris e passa la notte con lui ma al risveglio uomo e tappeto sono spariti. Così la donna comincia un lungo viaggio che da Los Angeles la porta a Istanbul per recuperare il tappeto scomparso. Il film trova ispirazione nell’arte della fabbricazione dei tappeti, in quella sublime espressione di intrecci che legano l’uomo alla sua storia e alla sua cultura grazie alla concretezza e alla praticità ma anche al fortissimo carattere simbolico che si esprimeva in passato nelle trame e nei colori. I tappeti, dunque, sembrano guardare dall’alto del loro passato al caos del presente, nell’attesa e nella speranza di recuperare la meraviglia di un accordo fra i popoli. Anche perché da sempre, in quei territori il tappeto ha svolto un ruolo centrale nella vita di ogni individuo, assumendo una dimensione quasi sacrale nel suo essere congiunzione di diverse culture e religioni.

Oggi sono gli antichi specchi del Palazzo milanese a creare un effetto straordinario di giuntura, quasi sinestetico, nella loro capacità di riflettere all’interno della stessa «inquadratura» brandelli di tessuto e fotogrammi di film, opacizzando di atemporalità il senso della memoria. E non è un caso che sia proprio Esther a osservare questi manufatti, tessuti prevalentemente dalle donne per tramandare sentimenti e valori da madre in figlia. La presenza di Esther, eroina ebraica che impedì lo sterminio della sua gente in Persia, diviene infatti l’emblema dell’incontro possibile tra popoli diversi che riescono a trovare un accordo di pace. E il riferimento più immediato è sicuramente la situazione odierna del Medio Oriente: basta ritornare al piano-sequenza «contemporaneo» di The Book of Amos, che come sempre nel regista ha una fortissima valenza «sovversiva» da un punto di vista cinematografico, per confermare la volontà di Gitai di trasmettere, ancora una volta, un messaggio di armonia tra i popoli.