Henrik Ibsen continua a rimanere un patrimonio insuperato del teatro «moderno», e i suoi testi un giacimento che ne fa in qualche modo uno Shakespeare alla vigilia del terzo millennio. Tutti ricchi, complessi coinvolgenti e premonitori, a più di un secolo dalla loro scrittura. Inutile ripercorrere i suoi molti e popolari titoli, ma davvero c’è tutto al loro interno. Il costruttore Solness (al Piccolo sala Grassi fino al 12 maggio) è una radiografia impietosa dell’imprenditore del titolo: della sua sessualità, del suo potere, delle sue debolezze, dei suoi alibi e dei suoi incubi, tutti al loro apogeo, tutti minati da una crisi profonda, anzi senza ritorno. Dopo il grande successo di pubblico riscosso a Roma da Nemico del popolo secondo Massimo Popolizio protagonista e regista, che chiama in causa i valori morali in conflitto con la politica, sul terreno ecologico dell’ambientalismo, era molto atteso questo Solness, frutto del lavoro comune tra Umberto Orsini, l’attore forse massimo della scena italiana, e Alessandro Serra, il regista rivelazione che ha saputo riscrivere e reinventare in lingua (e visione) sarda l’incontenibile tragedia scozzese con Macbettu (che ancora fino a domani si può vedere all’Argentina di Roma).

IL RISULTATO è monumentale, a cominciare dall’impatto visivo: via tutti gli ammennicoli di gusto borghese che di Ibsen danno la ambientazione storica, ma alti muri mobili in apparenza (e stridori) metallici. Una sobrietà scandinava per quel costruttore di palazzi, che si rivelano subito anche prigioni. E Umberto Orsini dà l’abituale straordinaria prova di bravura, e di misura, nel mostrarci tutte le fasi e le sfumature di quella «tragedia di un uomo niente affatto ridicolo», per i suoi eccessi, i suoi ripensamenti, per la facilità a concedersi a illusioni di fascino e seduzione e potere di donne diverse su di lui (la moglie pietrificata di Renata Palminiello, la esuberante e seduttiva ventata di gioventù di Lucia Lavia).
Costante rimane la sua resistenza al nuovo che avanza, la nuova generazione di progettisti della vita che ineluttabilmente prenderà il suo posto.

ATTORNO a tutto il racconto la regia di Serra costruisce una sorta di grande sarcofago, un monumento funebre da cui è impossibile uscire, se non con l’ultimo fatale azzardo di Solness. Una visione fascinosa quanto pericolosamente «funerea». Che rischia di far perdere allo spettatore la ricchezza di sfumature che Ibsen, grande realista, saprebbe offrire fin nei particolari dei suoi racconti.