Nei due documentari Dear Pyongyang (2006) e Sona, the Other Myself (2009), la regista Yang Yong-hi, nata e cresciuta in Giappone da genitori nord coreani, raccontava della sua famiglia a cavallo fra due nazioni, due mondi. Nel primo lavoro, forse quello più toccante dei due, attraverso filmati amatoriali, la cineasta e giornalista metteva in immagini la complicata storia della sua famiglia, smembrata agli inizi degli anni settanta dalla decisione del padre di mandare i suoi due figli maschi in patria, nella Corea del Nord.

LE STESSE tematiche sono anche al centro del primo film di finzione della regista, Our Homeland (2012), chiaramente autobiografico, che raccontava del ritorno temporaneo del fratello della protagonista dalla penisola coreana al Giappone. Il dramma molto particolare e circoscritto di Yang Yong-hi e della sua famiglia è solo uno degli esempi più lampanti di una vera e propria tragedia che si è consumata a cavallo fra due paesi, per un periodo lunghissimo e con responsabilità da entrambi i lati. Sono passati infatti settant’anni da quel lontano 1959, anno in cui cominciò un rimpatrio in massa per i nord coreani che vivevano in Giappone, un programma che spacciò il paese di Kim Il-sung come «un paradiso terrestre» e che si protrasse fino al 1984. In questo arco di tempo, con i picchi che si verificarono specialmente nei primi anni sessanta, più di 90.000 persone ritornarono nella Corea del Nord, di queste quasi settemila erano di nazionalità giapponese, per lo più famigliari o parenti.

TUTTO COMINCIO’ nel 1958 con l’evento ricordato come «L’assemblea del 15 agosto» nella cittadina giapponese di Kawasaki, in occasione delle celebrazioni per l’indipendenza della Corea dal Giappone avvenuta nel 1945. Un gruppo di nord coreani residenti in Giappone (molti di loro furono portati a forza nell’arcipelago durante il periodo espansionista) si riunirono e scrissero una lettera a Kim Il-sung in cui si impegnavano a ritornare nella madre patria per far rinascere il paese. A questa manifestazione ne seguirono altre in tutto il Giappone e uniti a questi movimenti «spontanei» ci fu una decisiva spinta del governo nipponico che, appoggiato dalla Croce Rossa, riuscì a vendere, a livello internazionale, questo rimpatrio in massa come uno sforzo umanitario. In realtà la maggior parte dei nord coreani che vivevano in Giappone non avevano cittadinanza giapponese ed una volta lasciato l’arcipelago non sarebbero più potuti tornare. In questo modo dopo aver usato la forza-lavoro coreana, nord e sud, durante il periodo coloniale, ora il Giappone era pronto ad entrare nel periodo post-bellico, liberandosi di fatto di una fetta di popolazione oramai ritenuta problematica ed inutile.

COME DETTO, una parte delle persone che andarono in Nord Corea fra il 1959 e il 1984 erano cittadini giapponesi dei quali quasi duemila erano mogli che seguirono i loro mariti. Questa tragedia è raccontata in un recente libro pubblicato in Giappone dalla fotogiornalista Noriko Hayashi, con fotografie ed interviste ad alcune delle donne ancora in vita che la giornalista giapponese ha incontrato durante le sue visite in Corea del Nord. Quasi tutte queste donne, al momento dello sbarco nella penisola, non sapevano naturalmente né scrivere, né parlare e né tantomeno leggere il coreano. E una volta entrate nel paese non fu più permesso loro di lasciarlo, se non in maniera temporanea e solo in anni più recenti. Intrappolate in un paese straniero per decenni, molte di queste donne sono purtroppo morte senza aver potuto prima rivedere o toccare di nuovo il suolo giapponese ed i loro cari.

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