traduzione

«Io parlo Berndeutsch, il dialetto tedesco di Berna, e scrivo in tedesco. Non potrei vivere in Germania, perché lì la gente parla la lingua che scrivo, e non vivo nella Svizzera tedesca perché lì la gente parla la lingua che parlo anch’io. Vivo nella Svizzera francese, perché qui la gente non parla né la lingua che scrivo né quella che parlo». Se apparentemente la frase di Dürrenmatt potrebbe sembrare una boutade, con il riferimento a un’identità linguistica – la sua di svizzero tedesco – sempre «fuori posto», a uno sguardo più attento l’universo linguistico svizzero si configura davvero come un ecosistema estremamente complesso. Se potessimo racchiudere la Svizzera in un’immagine, sarebbe certamente quella di un gomitolo. Un gomitolo realizzato non da un unico filo arrotolato su se stesso, ma da un insieme di fili, tante sono le lingue che si incrociano, si uniscono per poi nuovamente dividersi, facendo massa comune in un solo corpo geografico e politico. All’interno di un unico sistema osmotico – come di fatto è quello svizzero – l’italiano, il francese, il tedesco e i suoi dialetti, il romancio e da qualche anno le lingue dell’immigrazione, sembrano convivere simulatamente dando luogo a fenomeni di ibridazione, compresenza, diglossia tra i più interessanti nell’Europa contemporanea. Esattamente per questo Babel-Festival di letteratura e traduzione, che apre oggi a Bellinzona (17-20 settembre), ha deciso di festeggiare il suo decennale dedicando il ciclo dei propri incontri alla sua stessa nazione ospitante e alla sua multiformità linguistica.

Del resto «Babel», festival ibrido per sua natura, in cui parola letteraria e traduzione danno mostra ogni anno della continua forza tensiva che le anima, è il luogo ideale per rappresentare la struttura plurilingue che di fatto costituisce l’identità letteraria svizzera.

Non a caso il calendario del festival è stato concepito invitando gli autori a coppie, a sottolineare la natura prevalentemente dialogica che animerà gli incontri: Pedro Lenz e Guy Krneta; Peter Weber e Matteo Terzaghi; Pierre Lepori e Silvia Ricci Lempen. Così come sempre in dialogo saranno i workshop di traduzione, con gli scrittori invitati a parlare dei propri testi insieme ai traduttori che li hanno trasposti in un’altra lingua: Noelle Revaz con Maurizia Balmelli; lo scrittore romancio Arno Camenisch con Roberta Gado; Philippe Rahmy con Monica Pavani; la scrittrice ungaro-svizzera Melinda Nadj Abonji insieme a Jurczok.

Se quindi nei prossimi giorni la parola letteraria sarà senza dubbio il tema centrale, il filo di Arianna da seguire per svolgere lentamente, incontro dopo incontro, il gomitolo complesso dell’identità svizzera, il plurilinguismo di Babel non potrà però che aprirsi anche a riflessioni di carattere più ampio. Non soltanto mezzo efficace di comunicazione, ma anche sistema educativo (e di conseguenza per certi versi assoggettante), ogni lingua nel momento in cui si trova a contatto con un altro da sé implica una presa di posizione, uno stare in equilibrio, bilanciamento sottile sulla rete dei rapporti politici che regolano il mondo degli uomini. Far convivere due o più lingue significa quindi imparare a negoziare la differenza, a riconoscere la sostanziale diversità delle culture che ci stanno di fronte senza affogarle nella luce livellante di un discorso culturale univoco. «Ascoltare l’altro, gli altri – scrive Édouard Glissant – è accettare che la verità dell’altrove si opponga alla nostra verità». Ascoltare l’altro, gli altri, significa, di fatto, accoglierne il filo all’interno del proprio tessuto.