Ricordo benissimo. Era la mia ultima relazione generale al Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa; quella relazione che come presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura dovevo esporre una volta l’anno ai rappresentanti dei 47 paesi del Consiglio, pronto a rispondere alle loro osservazioni, domande, mugugni per ciò che le visite nei luoghi di detenzione dei loro rispettivi paesi avevano individuato. Soprattutto rispondere a un dato tanto rilevante quanto apparentemente incredibile: il persistere di gravi maltrattamenti e anche di pratiche di tortura nei confronti di persone private della libertà da parte di coloro che avevano il compito di vigilare sulla loro detenzione. Di vigilare cioè sia affinché la misura privativa fosse effettiva, sia che essa non implicasse trattamenti contrari al senso di umanità e la negazione dei loro diritti fondamentali.

Proprio in quell’ultima audizione – ero al termine del mio mandato – avevo puntato l’attenzione sulle derive che stavano facendo scivolare la cultura giuridica e ancor più le opinioni correnti verso un’implicita accettazione di possibili pratiche “forti”, in nome della tutela della sicurezza contro un nemico esterno, in grado di aggredire con il suo stesso esistere quella che si presentava come realtà democratica del nostro consesso.

Derive culturali nel pensiero di alcuni penalisti formalmente democratici d’Oltreoceano che avanzavano la necessità di regolamentare tali pratiche – quindi di accettarle come mezzi disponibili – al fine di controllare che non debordassero oltre un certo limite o che sostenevano che alcuni divieti assoluti, quale è quello relativo alla tortura, non fossero adeguati al nuovo contesto di lotta al terrorismo internazionale.

Ma, anche derive pratiche che erano apparse a tutti nelle molte immagini entrate nelle case all’ora di cena con notiziari che da un lato facevano sì che nessuno potesse più dire di non sapere dall’altro implicitamente creavano una progressiva assuefazione all’orrore.

Infine, derive istituzionali che avevano portato il Presidente di quella che più volte viene definita come “la più grande democrazia” a definire il waterboarding una semplice tecnica di interrogatorio e non già una forma di tortura e avevano portato alcuni suoi consiglieri – memorabile un tale John Yoo che aveva dato, appunto, consigli a un altrettanto memorabile ministro della giustizia, Gonzales – a sostenere che la forza del paese non sarebbe stata messa in crisi « da coloro che adottano una strategia del debole usando fori internazionali, procedimenti giudiziali e il terrorismo»: fori internazionali quindi quasi come una variante della strategia terrorista.

In quel contesto dissi che l’Europa avrebbe potuto riaffermare il senso del suo essersi ritrovata attorno a una Convenzione per i diritti umani sin dai primi anni dopo le tragedie del secolo scorso, solo ponendo con chiarezza il proprio rifiuto di ciò che la posizione del presidente degli Stati Uniti aveva espresso in quel suo negare la sostanza delle pratiche che in quegli interrogatori e in quelle detenzioni erano avvenute e avvenivano.

E che per far questo l’Europa doveva tagliare con quelle forme di acquiescenza, espresse dalla ripetuta chiusura dei propri occhi su voli non ben identificati nei propri cieli, con trasferimenti di persone verso luoghi oscuri d’interrogatorio, sull’assistenza a essi accordata, quantunque negata, sull’implicito appoggio a quel pensiero che poneva un’ipotetica ragione di stato al di sopra dei più elementari diritti di ogni persona: quello a non essere torturato.

Ma, poteva farlo solo interrompendo anche la catena d’impunità che spesso rende impossibili all’interno dei singoli paesi l’accertamento effettivo e l’adeguata sanzione dei responsabili nei casi di maltrattamento grave o tortura di una persona privata della libertà: questo anche in paesi che formalmente prevedono il reato di tortura nel loro ordinamento, ben di più in quelli, quale il nostro, che continuano a non prevederlo.

Fui ripreso al termine della mia relazione dal rappresentante diplomatico degli Stati Uniti – presente avendo tale paese lo status di osservatore nel Consiglio d’Europa – per la mia accusa al presidente di una grande democrazia; accusa a suo dire non fondata su fatti provati.

Ora il presidente Obama ha trovato il coraggio, alla vigilia di una data simbolica, di riscattare quell’omertà accondiscendente che circondava il potere statunitense in quegli anni.

La tortura esce dalla sua connotazione di indicibilità, di pratica inconfessabile; diviene parola pronunciata che indica una pratica che si è realizzata e può realizzarsi di nuovo.

Nel frattempo, noi ancora ci trastulliamo a discettare su come introdurre da qualche porticina di servizio il reato di tortura nel nostro codice, nel modo più indolore possibile, non capendo quanto offensiva sia indirettamente tale cautela per tutti coloro che all’interno delle forze dell’ordine svolgono il proprio ruolo con correttezza e coscienza dei propri compiti.

* l’autore è l’ex presidente del Comitato contro la tortura del Consiglio d’Europa (Cpt)