Fa caldo in Iraq, caldissimo. Temperature che superano i 50 gradi, intollerabili. Soprattutto se l’elettricità va e viene. Ma il caldo lo si sfida, come ogni estate da anni, per protestare contro una classe dirigente che acquista gas dal vicino Iran, nonostante sia seduta sopra le quinte riserve al mondo di petrolio, oltre 142 miliardi di barili di greggio. Eppure agli iracheni, sempre più poveri, si chiede di sopravvivere tra continui blackout elettrici.

Succede nella capitale, a ovest e a sud, nelle città sciite come Bassora che da tre anni scende in piazza d’estate per l’assenza di servizi decenti, mentre la sua periferia ospita i giacimenti petroliferi gestiti dalle compagnie straniere. Poi il greggio viene esportato e a Bassora non resta niente, poco petrolio e zero posti di lavoro.

LE MANIFESTAZIONI di Bassora delle estati passate sono state il nucleo dell’attuale mobilitazione popolare, cominciata il primo ottobre 2019, rallentata a causa dell’epidemia di Covid (sebbene i manifestanti, giovanissimi, non abbiano mai abbandonato i presidi, trasformandoli in centri di raccolta e distribuzione di aiuti alimentari, mascherine e disinfettanti), e ora riprese con forza.

I blackout elettrici sono l’ultima goccia: da mesi la mobilitazione popolare che ha investito Baghdad e il sud sciita chiede un nuovo Iraq, l’abolizione del sistema settario che permette alle varie confessioni di spartirsi il potere distribuendo prebende invece di riconoscere diritti.

DOMENICA IN MIGLIAIA hanno manifestato in diverse città, l’epicentro è stato ancora piazza Tahrir, nella capitale. È qui che le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco, lanciato gas lacrimogeni per disperdere la folla e ucciso due manifestanti.

O forse tre: ieri Shafaq News riportava la voce della High Commission for Human Rights in Iraq secondo cui le vittime dei candelotti sarebbero stati tre giovani e non due. Ventuno i feriti. A Nafaj, a sud, ieri ne sono stati feriti altri 20.

ALLE PROTESTE HA SUBITO risposto il primo ministro Mustafa al-Kadhimi. Appena nominato, ad aprile scorso, aveva scelto il dialogo: prestare l’orecchio alla piazza, aprire inchieste sui morti (oltre 550 da ottobre) e addirittura ordinare raid nella sede di una delle più potenti milizie sciite filo-iraniane, Kataib Hezbollah (per intenderci, quelle il cui leader al-Muhandis fu ucciso il 3 gennaio scorso nell’attacco Usa contro il generale iraniano Soleimani).

Lunedì Kadhimi ha fatto aprire un’inchiesta lampo, 72 ore per individuare i responsabili dell’uccisione dei manifestanti: «Ogni pallottola diretta ai nostri giovani e al nostro popolo è una pallottola diretta alla nostra dignità», ha detto lunedì sera in tv.

Gli iracheni ci credono poco: finora le inchieste non hanno condotto a nulla, nessuna punizione né riduzione della violenza di polizia, né tanto meno la messa in discussione del sistema di potere o riforme per incrementare servizi e opportunità di lavoro.

Il movimento si è infuriato ancora di più, ieri, quando il ministero degli Interni in una nota ha puntato il dito contro imprecisati «gruppi criminali» che vogliono gettare il paese nel caos: «La loro missione è istigare le forze di sicurezza ad attaccare i manifestanti».

E COSÌ IERI LA PROTESTA è proseguita, durante i funerali degli uccisi. Sono tornati i cortei, gli pneumatici dati alle fiamme e le barricate. Gli iracheni chiedono una vita dignitosa, lavoro, l’uscita dalla povertà, servizi e giustizia sociale. E non sembrano disposti ad accettare risposte come quella del ministero dell’Elettricità: quest’estate i megawatt sono mille in meno del 2019 a causa della mancata manutenzione di diversi impianti elettrici.

Kadhimi dice di non avere «soluzioni magiche» dopo anni di corruzione e cattiva gestione. I responsabili, però, sono ancora lì, in parlamento e al governo.