Non c’è insorgenza, rivolta o rivoluzione nella storia che non abbia indirizzato ai militari e alle forze di polizia l’appello a schierarsi «dalla parte del popolo» e cioè dalla propria parte, volgendo le spalle a quel potere costituito di cui rappresentano il braccio armato. A volte con indiscutibile successo, come nella Russia del 1917.

Ma i destinatari dell’appello rivoluzionario erano allora gli uomini della truppa, invitati a rivolgere le armi contro i propri ufficiali. Si trattava, in altre parole, di portare la lotta di classe nelle file dell’esercito, di smascherare la vera natura dell’istituzione militare: una massa di sfruttati manovrata da un manipolo di sfruttatori. Qualcosa di manifestamente differente e diametralmente opposto alla missiva che Beppe Grillo ha invece indirizzato ai vertici dell’esercito e delle forze di polizia, invitandoli a recidere ogni legame con le istituzioni politiche per solidarizzare con quel magma di sofferenza e risentimento che le sta contestando in molte piazze del paese.

E’ tutta qui la differenza tra un pensiero rivoluzionario (sia pure piuttosto anacronistico) e un pensiero compiutamente golpista e autoritario. Ma se il primo non figura più nell’agenda di nessun movimento, il secondo si affaccia frequentemente sulla scena. L’ennesima sparata del capopopolo genovese, del tutto irrilevante quanto ai suoi effetti pratici, è tuttavia efficacemente rivelatrice della torbida ideologia che ne ispira, in un preoccupante crescendo, la politica. Nonché della confusione mentale che la sottende.

Quale pensano che sia l’opinione dei vertici militari sull’acquisto dei famosi F35, sulle nuove navi da guerra, sulle missioni all’estero, gli attivisti del Movimento 5Stelle? Pensano forse che le gerarchie militari e le loro scelte vengano stabilite da consultazioni su Internet? E questi entomologi dell’”inciucio” non si sono mai accorti quanto la politica degli odiati partiti conti nella nomina dei capi delle forze dell’ordine? O nella copertura delle loro malefatte, vedi Genova 2001? E, dunque, dei rapporti di reciproca lealtà o interesse che ne conseguono?

Forse non lo ignorano del tutto, ma l’idea salvifica di uno “Stato forte”, alfiere indiscusso della legge e dell’ordine, puntiglioso controllore di sprechi e furtarelli istituzionali, sospinge al margine questo genere di dettagli. L’ossessiva fissazione sul Palazzo, nasconde alla vista le più insidiose articolazioni del potere. E la retorica, dilagante del “noi siamo l’Italia”, sbandierata in punta di forcone, tratteggia il quadro di una classe politica contrapposta a una società civile ritenuta invece vittima innocente, la cui protezione andrebbe affidata ai magistrati e ai comandanti delle forze dell’ordine, considerati entrambi, chissà per quale miracolosa ragione, estranei al sistema di potere. Secondo una ideologia che vorrebbe lo Stato schierato contro i partiti per la “salvezza della nazione”. Che, tra forconi e sventolio di tricolori, in questa scia si trovino a galleggiare comodamente anche quelli del “Dio, patria e famiglia” non dovrebbe sorprendere nessuno.

Tuttavia, quella che sta andando in scena è più una farsa che una tragedia. A prendere sul serio il proclama di Grillo è solo lo stucchevole galateo istituzionale dell’indignazione. I forconi, invece, ricevono un’attenzione addirittura superiore a quella che meriterebbero. Sono il prodotto di un enorme problema, di una tensione sociale sempre meno latente, ma una realtà numericamente limitata, politicamente fragile e socialmente eterogenea. Che fa gola a molti interessati ad appropriarsi di questa relativa indeterminatezza per riempirla con le proprie parole d’ordine. E perfino al governo può far comodo credere che la “rivoluzione” sia questa. Meglio di una stagione di conflitti più radicali e determinati.