Hanna Gharib è il segretario generale del Partito comunista libanese, che ha da poco festeggiato il suo 96°anniversario con un’imponente manifestazione a Beirut. Il manifesto lo ha intervistato riguardo alle proteste, l’impasse politica e la crisi economica che sta colpendo il Paese dei cedri.

Cosa è cambiato in Libano dopo le proteste dello scorso ottobre 2019?

Dopo la rivolta dello scorso 17 ottobre 2019, il Libano è entrato in una nuova fase della sua politica. I partiti settari al potere sono allo sbando e da allora non sono stati in grado di formare un governo funzionante. Sia il governo Hariri, caduto a causa della rivolta, sia i due «governi dei tecnocrati» di Hassan Diab e di Mustafa Adib non sono riusciti ad affrontare le riforme necessarie e non hanno cambiato in sostanza nulla. Le proteste possono non aver ancora ottenuto qualcosa di concreto, ma il sistema politico che si è instaurato nel dopoguerra è ora in crisi. Possiamo dire che il vecchio sta morendo ma il nuovo non è ancora nato. Durante questo periodo, la rivolta è andata oltre le richieste economiche per diventare una protesta per l’istituzione di una vera democrazia in Libano contro il sistema settario e il governo di quella che è stata soprannominata «l’oligarchia». In questo senso, la rivolta continua oggi come una «rivoluzione democratica» per rimuovere il duplice dominio delle ingerenze straniere e dei partiti settari, che nella loro conservazione dell’«Ancien Regime» sono diventati un ostacolo al progresso e alla modernità in Libano.

Quali sono le soluzioni per risolvere questa impasse politica e per un vero cambiamento?

La rivolta del 17 ottobre ha avuto motivazioni puramente economiche a causa dell’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità e della mancanza di prospettive lavorative, cause che hanno colpito soprattutto le giovani generazioni istruite. Ciò ha portato alle proteste sia da parte dei poveri che delle classi medie, lavoratrici e istruite. La protesta richiede, infatti, sia un cambiamento politico in senso democratico che un netto cambiamento nelle scelte economiche. A livello politico deve essere stabilito un nuovo sistema, quello che chiamiamo «uno stato laico e democratico» che eliminerà il sistema settario. Affinché ciò possa essere stabilito, è necessario un governo di transizione, formato da forze che non sono affiliate a nessuna delle élite politiche del paese e che gli conferiscano poteri legislativi esclusivi. L’agenda di un tale governo comprende due punti principali: l’adozione di un nuovo sistema elettorale basato sul sistema di rappresentanza proporzionale la cui ridistribuzione non sia basata su formule settarie; la garanzia di una magistratura forte e indipendente per contrastare clientelismo e corruzione. Riguardo all’attuazione di nuove politiche economiche la nostra richiesta prevede un nuovo modello di sviluppo per il Libano che stabilisca un’economia produttiva, giustizia sociale e posti di lavoro. Il Pcl sta attualmente lavorando per unire gli sforzi di tutti i gruppi laici e democratici che lavorano sotto l’ombrello della rivolta del 17 ottobre, al fine di formare un’alternativa politica forte e praticabile con un programma e un piano d’azione chiari.

Hanna Gharib

Il Pcl è vicino allo schieramento dell’8 marzo insieme alla Corrente patriottica libanese di Aoun e agli sciiti di Hezbollah. Come giudica la nuova nomina di Hariri a capo del governo?

Vorrei precisare che il Pcl non aderisce e non è mai stato parte della «corrente dell’8 marzo». Il nostro partito ha sempre seguito una posizione politica indipendente tra questi due schieramenti. In un certo senso, abbiamo cercato di stabilire una «terza via», lontano da queste divisioni che non erano «ideologiche», ma basate su cinici interessi politici. Entrambi gli schieramenti, infatti, sono responsabili dell’attuale crisi del nostro paese perché sono sempre stati concordi sulla perpetuazione del sistema settario, utilizzando le medesime politiche economiche. Hanno mantenuto un sistema clientelare corrotto e hanno governato insieme nei cosiddetti governi di «unità nazionale» in questi ultimi anni. A mio avviso, tutte le fazioni politiche cercano di guadagnare tempo e intanto cercano una potenza regionale e /o internazionale per salvaguardare le loro posizioni e privilegi in cambio del controllo delle risorse economiche del paese, come quelle naturali sugli idrocarburi. L’«iniziativa francese», ad esempio, punta al mantenimento dell’attuale sistema politico, al rispetto delle richieste del Fmi e alla privatizzazione di società pubbliche, come quella dell’elettricità o dell’acqua. Ora, con la ri-nomina di Hariri a primo ministro, non cambia nulla se non il tentativo di mantenere un sistema ormai in crisi.

Come giudica il Pcl le pressioni dei paesi esterni (Stati uniti e Francia in particolare) sul tentativo di isolare politicamente Hezbollah o sul suo disarmo?

Il problema più grande nella nostra zona è storicamente la fondazione dello «Stato sionista» nel 1948 che ha causato una continua serie di aggressioni israeliane contro il nostro popolo e la nostra terra. È ampiamente visibile a tutta la comunità internazionale che questa entità non ha confini quando si tratta del suo desiderio di occupare ed espandersi, visto che occupa ancora parti del territorio libanese, oltre alla sua occupazione della terra palestinese dal 1948 e delle alture siriane del Golan dal 1967. Se parliamo di storia il nostro partito è da sempre stato impegnato nel movimento di resistenza con la «guardia popolare» nel ’50, le forze «al Ansar» nel ’70 fino al Fronte di Resistenza Nazionale libanese, nato nel 1982, che include tutte le forze politiche che rappresentano il nostro popolo e di cui Hezbollah è uno dei principali esponenti. Siamo allineati con Hezbollah nella sua agenda per combattere il nemico sionista, tuttavia non siamo d’accordo su diversi aspetti politici soprattutto per quanto riguarda la riforma del sistema confessionale. Garantiamo, invece, il nostro sostegno ad Hezbollah come forza di resistenza perché le pressioni di Usa e Francia fanno parte dell’agenda statunitense e israeliana per indebolire il Libano. A questo proposito, abbiamo chiesto la creazione di uno «Stato resistente» che diventi nel suo insieme uno strumento di resistenza contro Israele.

Qual è la posizione del Pcl sulla questione dei profughi palestinesi e oggi dei profughi siriani?

Politicamente, la questione dei rifugiati in Libano è stata il risultato dei conflitti nella regione e siamo decisamente contrari alla «sistemazione» permanente dei rifugiati in Libano, poiché i palestinesi hanno il diritto di tornare in Palestina come i siriani di tornare nel loro paese. Sul rientro dei profughi in Siria sosteniamo che ciò debba avvenire in accordo tra i governi siriano e libanese e con l’aiuto delle Nazioni unite. Per quanto riguarda gli aspetti umanitari, siamo a favore di tutte le misure che renderebbero la vita di tutti i rifugiati il più tollerabile possibile e ci siamo sempre opposti a tutte le campagne xenofobe e razziste contro di loro.

Quale futuro per il Libano e il Pcl al suo 96° anniversario?

Nel nostro 96° anniversario, ci siamo impegnati a continuare la lotta contro il sistema politico libanese e a sostenere la rivolta. Come continuiamo nella resistenza nazionale per liberare il Libano da tutti gli interventi e dalle influenze straniere. Vediamo un collegamento tra queste due priorità poiché i partiti settari sono in un certo senso «dipendenti» o addirittura «delegati» dalle potenze straniere. Siamo fiduciosi che il movimento di protesta che chiede un cambiamento alla fine vincerà e consideriamo questa come la lotta tra le forze moderne progressiste e le forze del passato. Quanto al Pcl, essendo parte della rivolta si è in un certo senso rinnovato e proprio per questa nostra visione progressista e laica stiamo avendo una «seconda rinascita» con l’adesione di gran parte delle nuove generazioni, come del resto sta avvenendo ai partiti della sinistra in numerosi paesi del Vicino e Medio Oriente.