Non è certo che il battage pubblicitario sul premio Strega a cui è candidato farà bene a questo libro del cantautore Vinicio Capossela (Il paese dei coppoloni, Feltrinelli, pp. 352, euro 18). Perché invece a un libro così evocativo dei miti ancestrali della società contadina (ma non solo), meridionale (ma non solo) farebbe bene una discesa agli inferi dell’underground più radicale. Perché il suo «sciacquare i panni in Ofanto», cioè scavare dentro il linguaggio più «carnale» dei miti e riti della sua terra d’origine, quell’Alta Irpinia dove appunto nasce il fiume nel libro chiamato evocativamente Ofanto, ha un senso se parla alla pancia di questo territorio e alle pance universali. E non certo per puro divertissement, ma perché in un’epoca plasmata dall’imperativo del godimento personale – dell’illusione di quel godimento egoistico -, ritornare alla «base», alle «radici», può avere un significato di ricerca di senso; di ricerca di alfabeto perduto. Del resto l’autore ricorda, nell’esergo, Ernesto De Martino, in uno dei suoi insegnamenti più attuali: «Coloro che non hanno radici, che sono cosmopoliti, si avviano alla morte della passione e dell’umano: per non essere provinciali occorre possedere un villaggio vivente nella memoria, a cui l’immagine e il cuore tornano sempre di nuovo, e che l’opera di scienza o di poesia riplasma in voce universale».

Dunque Capossela conduce il lettore, a mo’ di viaggio donchisciottesco, in un’infinità di racconti ed episodi tra paesi e toponimi, tra mangiate e bevute, tra medici improvvisati e donne astute, tra improbabili guidatori di altrettante improbabili macchine, in un mondo che «materiale», istintivo, commovente. Un mondo pieno di nomi favolistici: Scatozza, Mandarino, Pacchi Pacchi, Testadiuccello, Marescialla, Cazzariegghio. E sono i personaggi che tanti hanno ascoltato nel loro vivere e peregrinare in questa terra di mezzo con il piccolo paese di Cairano («Cariano» trasfigurato) al centro del racconto, appeso in alto come una sentinella a guardia del territorio.

Non è un libro che ammicca al classico questo di Vinicio Capossela, come del resto è il ritmo delle sue canzoni e delle sue ballate. È piuttosto il canto frammentato di una terra dove l’autore cerca il senso del vivere e del fare arte. E, come in tutti i racconti che si rispettano, non si può che concludere il viaggio con un inno propiziatorio alla luna: «Aveva un volto triste la luna, malinconico come una Madonna, con gli occhi abbassati da una parte e una specie di sorriso. Diventava sempre più grande e rifletteva deserti ed echeggiava dei cuori solitari, degli erranti cuori infranti, fino a che diventò immensa, come una serenata. Risuonava di dentro come di canzoni, di mariachi, e madrigali, e Lieder, e lamenti di innamorati. Tutto aveva raccolto la luna e ne splendeva. Voci di animali, canti di civette, miagolii».