La primavera calda scoppiata all’improvviso negli ultimi giorni poteva essere una minaccia invece, nonostante il sole che rende l’azzurro del lago ancora più ammiccante, le sale di Visions du Reel sono sempre piene anche un qualsiasi lunedì pomeriggio.

È una scommessa importante, pure se non l’unica, che la nuova direttrice del festival svizzero, Emilie Bujès, sembra avere vinto, bisognerà aspettare le cifre finali ma l’impressione è quella di una bella vivacità con l’arrivo nel pubblico di molti giovani – altro dato interessante.

Qualcosa è cambiato anche nella struttura di un programma assai vasto con l’inserimento del nuovo concorso – accanto all’ internazionale e al nazionale – Burning Lights dedicato, come si legge nella presentazione, ai «nuovi vocabolari » del documentario.

Ma la specificità più evidente è una linea «editoriale« che attraversa tutte le sezioni, e che si riassume nella ricerca di una cifra documentaria caratterizzata da un forte elemento narrativo – per dirlo in altro modo dalla «finzione».

Non è casuale la scelta di Claire Simon come Maitre du Reél, una regista che modella il suo cinema, film dopo film, su un equilibrio limpido tra queste dimensioni, e nella messinscena costruita a partire dall’esperienza « reale» fonda la verità delle sue immagini.

A differenza  però di altri festival che affermando un «indirizzo» limitano la propria fisionomia, qui la selezione pur nella coerenza col proprio obiettivo ha cercato di esplorare – senza eccessi di generalismo – forme e formati molteplici (non sempre con esiti felici) che esprimono diversi sguardi sul mondo e un diverso approccio al suo racconto.

Eccoci dunque nella Tunisia del dopo-Primavera narrata attraverso il quotidiano lavorativo di cinque ferrovieri. Il film, esordio di una giovane regista, Erige Sehiri – nel concorso Burning Lights – ha forse il limite di non renderli abbastanza «personaggi», di non valorizzare cioè tutte le loro potenzialità fermandosi a una dimensione più corale, ma riesce a restituire i sogni e le aspettative deluse della generazione rivoluzionaria.

Lungo i binari scassatissimi della Voie Nationale del titolo, che dovrebbe essere l’unica a norma internazionale e che invece è la più disastrata da incidenti e ritardi, vetture vecchie, binari pericolanti, tutto smentito sempre dalla società – diciamo che siamo dalle parti dei regionali di Trenord o simili – Sehiri percorre la Tunisia più periferica, quella dei villaggi e delle classi povere, e di una rivoluzione impigliata tra le contraddizioni antiche e l’immobilità politica.

C’è chi era  artista e ha cominciato a guidare un treno per «unire il Paese», chi scrive rap rivoluzionari contro il governo e la repressione, chi si fa licenziare perché denuncia apertamente le falle della compagnia ferroviaria. Il tempo passa (il film è stato girato in sette anni) e quelle vite dall’entusiasmo spavaldo e giocoso dell’inizio scivolano nella delusione solitaria, in una rinuncia che non riesce a reinventare altre possibilità di resistenza.

Felipe Monroy è colombiano, vive a Ginevra da anni – «regista in esilio» si presenta con ironia all’inizio del suo film – un giorno torna a Bogotà, il governo e le Farc hanno raggiunto un accordo di pace, ma come raccontare una riconciliazione che genera nuovi elementi di conflitto? Il punto di partenza sarà l’esperienza personale, la «guerra» nella famiglia, una madre che ha cresciuto Felipe e sua sorella con durezza e molte botte, un padre scomparso, inghiottito dalla droga nel quartiere di el Cartucho, una specie di zona franca del narcotraffico, ora in riabilitazione. Los fantasmas del Caribe è il diario di questo confronto complicato, davanti alla macchina da presa ognuno prova a raccontare la sua versione della storia (ma non è così anche per la Storia collettiva?) rifugiandosi nella commozione che evita di ammettere un qualsiasi errore. Felipe si mette in gioco, assume il suo ruolo nella distanza di un racconto che in quel piccolo interno familiare cerca qualcosa di più grande, un trauma condiviso di violenza.

Tuttocomincia diverso tempo fa, quando alla morte del padre Daniele Incalcaterra e suo fratello ricevono in eredità 5000 ettari di terra nel Chaco, la foresta paraguayana. Per il regista è l’ennesimo «regalo» non gradito in un rapporto che si intuisce conflittuale. Cosa farne se non restituirlo ai Guarani-Nandevas, i nativi derubati da secoli di colonialismo e latifondismo? Ma il bel gesto utopico non corrisponde alla situazione «reale» che trasforma il regista in una figura « donchisciottesca» tra i i poteri del latifondo e la politica del continente latino americano. E la sua battaglia in un film, El Impenatrable.

Sei anni dopo Arcadia, questo il nome della terra divenuta riserva naturale grazie a un decreto presidenziale, è sempre un sogno impossibile, nel frattempo Lugo che lo aveva firmato è stato deposto, è arrivato un nuovo proprietario con un titolo che ha lo stesso valore di quello di Incalcaterra mentre intorno la foresta continua a essere divorata dall’allevamento di bestiame e dalla coltura di mais e soia (transgenici). Chaco – realizzato insieme a Fausta Quattrini, nel concorso nazionale – inizia da qui ma del film precedente non è un vero e proprio sequel, piuttosto appare come una nuovo capitolo in quel confronto (scontro?) con la realtà e la sua rappresentazione che è la sostanza del cinema di Incalcaterra. E il terreno su cui avviene è ancora una volta lui stesso, o meglio il suo personaggio che da osservatore-narratore lo rende protagonista della storia che racconta. Stavolta però le contraddizioni e i contorni di ambiguità nell’idea di quel «dono» – affiorano con prepotenza.

Il tizio goffo e impacciato diviene sospettoso, si chiude in una torre da cui comincia a vedere solo complotti. Gli indigeni pretendono la terra altrimenti non avrannopiù rapporti con lui, l’amico attivista Victor lo abbandona, la politica del Paese sembra indirizzarsi verso i soliti e prevedibili privilegi che minacciano non solo Arcadia ma che ne determinano l’origine della miseria e della feroce divisione di classe.

Lassù, mentre papa Francesco infiamma le folle coi suoi discorsi in cui ammette le responsabilità anche della Chiesa nello sfruttamento delle genti, Incalcaterra, il suo personaggio, è sempre più lontano da quella realtà che voleva cambiare e ai Guaranì non riesce a dare nessuna risposta. La vetrata da dove ogni giorno osserva il paesaggio di una naturale bellezza che ne dissimula i problemi, di questa «distanza» diviene il simbolico segno, come questo bel film afferma l’esigenza di un cinema che non prevede certezze, perché questo è l’unico modo per mantenere una vitalità, il suo essere presente e costante strumento con cui interrogare il nostro tempo.