Da anni assistiamo a manifestazioni di giubilo, misto a stupore, da parte di chi ritorna dal suo primo viaggio in Spagna. Strade pulite, rete metropolitana estesa fino all’impensabile, stazioni ferroviarie e aeroporti lavati a specchio anche quando si arriva o si riparte a notte fonda, scuole e biblioteche efficienti, servizi pubblici e privati a misura del cittadino. Molte delle cose che ci tormentano ogni giorno in Italia funzionano lì magnificamente. Ma perché stupirsene? La Spagna è semplicemente – già da qualche decennio – un paese civile. In questi anni di consolidamento del regime democratico, dopo il quarantennio franchista, ciò è stato testimoniato da reportage, inchieste, interviste che hanno fatto il giro del mondo, mostrando ovunque la battaglia sostenuta da questo paese per affermare un’immagine di sé credibile agli occhi dell’Europa moderna e compatibile con un progetto comune di crescita e di sviluppo, anche in una situazione, come quella odierna, di crisi globale.

Vessati come siamo da inadempienze secolari, in Italia stentiamo ad accettare l’idea che quell’arretrata provincia meridionale che i Pirenei hanno a lungo mantenuto ai margini della vita europea, quella Spagna che, fino al secolo scorso, ci è stata dipinta come un paese diverso, pittoresco e primitivo, sia riuscita là dove noi abbiamo fallito. Altro Sud, altra storia?

Difficile rispondere, ma proprio in questi giorni si potranno rileggere – grazie alla riedizione del Corriere spagnolo (1947-1954) del poeta, ispanista, scrittore salentino Vittorio Bodini (1914-1970), a suo tempo curato da Antonio Lucio Giannone e ora riproposto con lo stesso prezioso apparato critico da Besa editrice – alcune delle pagine più belle che siano state scritte su un’idea non localista ma trans-nazionale di «meridione», ricavandone qualche utile spunto di riflessione. Non sul degrado della società italiana di oggi, ovviamente, né sul brillante recupero di quella spagnola, ma sul potente radicamento dei rispettivi universi culturali nazional-popolari in un unico grande Sud sovra-nazionale e alternativo a quello della geografia storica e letteraria ufficiale. Un Sud che l’autore di quelle pagine immagina abitato dagli emarginati e gli oppressi di questa terra, dai cantaores andalusi ai carrettieri o braccianti leccesi che tornano a casa la sera ubriachi e cantano; cantano, come i fratelli gitani, con voce rotta da «urli prolungati in modi ogni volta imprevedibili» e una pena disperata dentro, «pena di vivere – secondo Bodini – di avere un cuore e di non saperne che fare».

È bene chiarire subito che non è stato mai nelle intenzioni di Bodini evocare, in nome della poesia, soluzioni fantasiose e consolatorie alle pene e alle miserie di quelle terre «amare». L’impatto con il duende lorchiano, incarnazione delle pulsioni creatrici racchiuse e troppo presto dimenticate nell’anima di chi non ha strumenti, né parole, né concetti per fronteggiarle e goderne pienamente, obbliga invece Bodini a svelare il potenziale catartico e liberatorio di tanto «colore» locale. Nessuna gratuita concessione, da parte dell’ispanista salentino, al mistero e all’incanto popolare che immeritatamente quel «colore» sostanzia e che un po’ lo seduce. «Sono tutte le regioni dell’Europa – afferma – che gridano vendetta nell’Andalusia di Lorca», ai suoi occhi più surreale che mitica, emblema dell’«eterna esigenza iberica a un rapporto con la realtà a un livello teso, estremo, superreale».

Poeta non ancora debitamente apprezzato, prosatore e saggista di raffinato e riconosciuto talento, ispanista molto poco accademico ma appassionato, traduttore dotato di speciale duttilità, divulgatore di classe, Vittorio Bodini – di cui ci si accinge a celebrare il centenario della nascita con una serie di lodevoli iniziative culturali ed editoriali, tra cui l’omaggio che la città di Castelnuovo di Porto gli dedicherà domani con esposizioni di quadri dedicati alla sua poesia e interventi di specialisti sugli scritti di tema ispanico – era un liberale autentico, solidale con quel liberalismo democratico di derivazione azionista e respiro europeo che nell’immediato dopoguerra raccoglie attorno a sé intellettuali e letterati eccellenti come Leonardo Sciascia (con il quale Bodini intrattiene una intensa amicizia e un fertile scambio culturale proprio su autori e testi spagnoli), ma anche Luigi Meneghello, Eugenio Scalfari, Giovanni Russo e molti altri. Come ben ricorda Antonio Lucio Giannone nella felice introduzione al Corriere spagnolo, il Sud gli si impone presto come tema, sin dai primi racconti e nei versi con cui mette in moto il proprio laboratorio poetico.

È però con il viaggio in Spagna, nel novembre del 1946, che scoprirà il «suo» Sud. Doveva rimanere a Madrid per sei mesi. Vi resta altri due anni, per poi consacrarsi definitivamente allo studio e all’insegnamento universitario della letteratura di quel paese in Italia. Continua a scrivere poesie e racconti, intensifica le collaborazioni giornalistiche a quotidiani e periodici come Risorgimento liberale, Libera voce, La Fiera Letteraria, La Gazzetta di Parma , La Gazzetta del Mezzogiorno, cui si aggiunge, anche il prestigioso Mondo di Mario Pannunzio. Gli articoli e i reportage riuniti in Corriere spagnolo risalgono, in particolare, al periodo compreso tra il 1947 e il 1954, quando più spesso gli viene richiesto, come fa per l’appunto Pannunzio, ancora direttore del Risorgimento Liberale, di scrivere sulla Spagna, sulla vita di Madrid, sui suoi riti quotidiani, dalla corrida al flamenco, ai chatos e alle tapas. Bodini ne approfitta per un affondo nello «spirito» del paese, nell’«intimo colore» di quella nazione che, nella sua percezione, già addomesticata dalla lezione lorchiana, continua ad essere nero. Non come quello della leggenda, ma come quello di certi dipinti di Goya, le conturbanti pinturas negras, che non si stanca mai di ammirare nelle sale del Prado. «Tutto ciò che è popolare, cioè spagnolo, nelle sue manifestazioni più caratteristiche» è Spagna nera per Bodini: «Spagna nera l’Andalusia, il flamenco, il gitanismo, e Spagna nera la chitarra e i canti popolari assistiti da una densa grazia poetica; Spagna nera è Lorca, il poeta più cromatico che il mondo conosca».