Quando l’hacker-eroe del film Matrix si risveglia nel mondo reale (dominato da macchine, che traggono energia dal metabolismo degli esseri umani), arriva ad accorgersi che tutto quello che aveva fino allora pensato, agito, goduto e patito nella sua vita era soltanto una realtà simulata, trasmessa al cervello da un cordone di cavi.
Il film dei fratelli Wachowski uscì in sala nel 1999; riproponeva, dopo oltre tre secoli e mezzo, l’esperimento mentale suggerito da Descartes, nella sua Prima meditazione: «Io supporrò, dunque, che vi sia (…) un certo cattivo genio (…) che abbia impiegato tutta la sua industria ad ingannarmi. Io penserò che il cielo, l’aria, la terra, i colori, le figure, i suoni e tutte le cose esterne che vediamo, non siano che illusioni e inganni, di cui egli si serve per sorprendere la mia credulità. Considererò me stesso come privo affatto di mani, di occhi, di carne, di sangue, come non avente alcun senso, pur credendo falsamente di aver tutte queste cose».

Nel 1981, quasi vent’anni prima di Matrix, il filosofo Hilary Putnam aveva discusso estesamente una eventualità del genere, con intenti affatto diversi da quelli suggeriti da Descartes (che erano, in sintesi: l’ineluttabilità del dubbio; l’intuizione dell’esistenza del pensiero e, dunque, della materia pensante; la bontà di Dio, come garanzia della verità). Accogliendo (per demolirla) l’ipotesi che noi tutti potremmo essere «cervelli in una vasca», Putnam si proponeva tre obiettivi: mostrare l’incoerenza del dubbio cartesiano; ribadire che i contenuti mentali dipendono dall’esperienza; polemizzare contro il realismo metafisico. Infatti, per Putnam, noi non possiamo pensarci come «cervelli in una vasca», perché un pensiero del genere è logicamente incoerente, e si distrugge da solo.

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Hilary Putnam

Del resto: ogni parola/concetto (compresa la parola «cervello») si riferisce per Putnam a qualcosa che ha determinato l’introduzione di quella parola; e, dunque, noi non possiamo avere alcuna esperienza del nostro cervello come di un «cervello nella vasca», sì da poterlo pensare/designare in quel modo. Infine: se lo scenario dei «cervelli nella vasca» è logicamente impossibile (perché i cervelli non possono guardarsi da «fuori», scoprendosi in una vasca), non c’è alcun modo di guardare al mondo con gli «occhi di Dio»: la nostra visione della realtà è limitata dai nostri schemi concettuali, anche se questi dipendono dalla nostra esperienza. Qualsiasi realtà metafisica, che prescinda dai nostri schemi concettuali e dalla nostra esperienza, è una vacuità filosofica.
Non era la prima volta, del resto, che Putnam utilizzava suggestioni mutuate dalla fantascienza, per argomentare filosoficamente. Lo aveva già fatto nel 1975, in quello che molti considerano il suo capolavoro, nell’ambito della semantica: Il significato di ‘significato’ («The Meaning of ‘Meaning’»). In questo saggio, Putnam si proponeva di reagire a una tradizione millenaria sulla natura dei concetti, in particolare all’idea che questi siano completamente contenuti nella mente, richiamabili dunque da una sorta di teatro interno, privato, isolato dagli altri esseri umani e dal «mondo esterno».

Putnam immaginò una «Terra gemella», nella quale l’acqua non fosse composta da due molecole di idrogeno e da una di ossigeno, ma da una combinazione degli elementi X, Y e Z, non meglio specificati, ferme restando tutte le altre caratteristiche dell’acqua nostrana. In un contesto del genere, il significato della parola «acqua» – nelle due Terre gemelle – sarebbe diverso, perché diverso sarebbe il loro riferimento fisico. Ipotizziamo dunque che due individui gemelli – identici in tutto – pronuncino nelle due Terre la parola «acqua».
Essendo identici tra loro, lo saranno anche i loro stati mentali interni, quando pronunciano quella parola; ma se i significati sono diversi, mentre gli stati mentali sono identici, questo implica il fatto che il significato dei termini non può essere ridotto ai soli stati interni. Naturalmente, possono essere avanzate diverse obiezioni, rispetto a questo argomento; ed infatti, la letteratura in materia è davvero impressionante. Ma pochi mettono in dubbio che l’anti-soggettivismo di Putnam, implicito nella sua semantica, costituisca una pietra miliare del pensiero contemporaneo, una rottura di carattere rivoluzionario, rispetto all’idea che le basi della conoscenza siano tutte racchiuse nell’intimità della mente.

Ancor prima di questi risultati, Putnam aveva avuto modo di farsi conoscere per un’altra idea stravagante: la tesi secondo la quale uno stesso stato psicologico (per esempio, il fatto di avvertire un certo dolore, ben localizzato e caratteristico) potesse essere legato a diversi stati fisici. Questa tesi – nota come quella della «realizzabilità multipla» – è in qualche modo alla base del funzionalismo contemporaneo, cioè all’idea che sia per esempio possibile costruire macchine intelligenti o forme di vita non organiche (non basate, cioè sulla chimica del carbonio) le quali risultino funzionalmente isomorfe alla mente e al corpo degli esseri umani, comportandosi alla stessa maniera e, anzi, sperimentando gli stessi stati interni. Una tesi del genere, in verità, doveva essere confutata dallo stesso Putnam qualche anno dopo, proprio sulla base della sua stessa semantica esternalista: gli stati e le configurazioni interne di una macchina non sono sufficienti, per garantire circa il significato delle rappresentazioni che quella macchina è in grado di farsi; così come non si dà una corrispondenza biunivoca tra tipi di stati fisici e tipi di stati mentali, non si dà nemmeno una corrispondenza tra tipi di stati mentali e tipi di stati funzionali.

Già questo tipo di svolta, circa la consistenza teorica del funzionalismo e il suo valore esplicativo, dà qualche indizio su inclinazione ricorrente di Putnam: quella di ritornare sui suoi stessi risultati, per rimetterli in gioco. Qualcuno, tra i suoi colleghi più brillanti, ha addirittura proposto di numerare le fasi teoriche di Putnam, come le ere geologiche: «due Putnam fa, Putnam pensava che…». Ma nel suo necrologio, Martha Nussbaum ha voluto così ricordarlo: «La gloria maggiore del modo di filosofare di Putnam stava nella sua totale vulnerabilità. Continuando ad inseguire ogni argomento fino alle estreme conseguenze, ovunque lo avesse portato, cambiava spesso le sue opinioni; e il fatto di aver cambiato idea non era per lui un disappunto, ma piuttosto un piacere; la prova che era abbastanza umile da essere degno della sua razionalità».

Era stato un acceso militante: attivista contro la guerra nel Vietnam, per qualche tempo fu membro di un partito maoista statunitense alla fine degli anni ’60. Questo non gli impedì restare ad Harvard, dove il corpo accademico volle difendere la libertà delle sue scelte; a quei tempi, era noto per i suoi lavori nel campo della logica e della filosofia della matematica, ma – proprio ad Harvard – tenne anche corsi di marxismo. La sua forza teorica ed intellettuale lo portò a diventare poco dopo presidente della American Philosophical Association. E, dopo i fondamentali contributi in logica, matematica, filosofia della scienza e filosofia della mente, i suoi interessi si allargarono all’etica, alla filosofia politica, all’economia, alla letteratura.
Un gigante, insomma: un gigante mite, col sorriso sulle labbra, del quale sentiremo la mancanza