Dal concetto di responsabilità, individuale e collettiva, prende avvio anche l’ultimo libro di Moreno Gentili, Terra Arsa. Tempo dovuto (prefazione di Gabriella D’Ina, La vita felice, pp. 120, euro 13). Autore trasversale e testardamente fuori da ogni etichettatura, artista, scrittore, curatore e ideatore di due festival letterari (Letteralmente Festival, scrivere e parlare di cultura civile e Manifestare poesia, incontri Recanatesi), Gentili è condotto dall’impeto di una parola di forte impronta sociale.

Terra Arsa è la sua seconda raccolta poetica; nella prima, Illibertà, l’autore ha scelto una lingua militante, esortativa, sperimentale, rimproverando alla politica una mancanza di passione, un atteggiamento di calcolo, un’incapacità di servire i cittadini affidando alla scrittura rabbia e disillusione; amarezza in cui si può registrare un’eco pasoliniano: «Hai voluto che la tua vita fosse / una lotta. Ed eccola ora sui binari / morti, ecco cascare le rosse / bandiere, senza vento».

IN «ILLIBERTÀ» ci sono tutte le emozioni che contraddistinguono l’esperienza della crisi, addensate come cumuli nel cielo, ma soprattutto appare per la prima volta quel segno grafico, o matrice, dell’opera poetica di Gentili: il pattern poem quadrato, o significante in forma di quadro, dettato sillabico e sonoro di parole fissate (verrebbe da dire locked down) in una gabbia di sette centimetri per sette, che sono il timbro più incalzante e incisivo di questo linguaggio che, parafrasando l’autore, letteralmente manifesta poesia: «Realtà di numeri e fatti, onore di cronaca in immaginazione», «rabbia repressa con metodo, morti spenti in commiserazione», «martiri distesi a respirare selciato», «memoria di scuro morire» (70 Traduzione).

In Illibertà la maggior parte dei componimenti iniziava con la prima persona singolare del tempo presente. In grammatica il verbo è la parte variabile del discorso, che annuncia le azioni compiute dal soggetto. Per Gentili, il verbo è quel gesto quasi guerresco che ha accompagnato la scrittura fin dai suoi primi lavori, quel portare il corpo nella storia, l’esserci fisco, materico, dell’atto creativo. Sopraggiunge oggi, in questa raccolta, un tempo diverso, di bilancio: «attesa finita di un domani di luce, sguardo perduto che muove al conforto, stanchezza in ragione di corpo, niente si dona sul richiuso confine» (50 Sudore).

VENGONO ALLA MEMORIA i versi di Eliot (The Waste Land è il deserto): «Sedetti sulla riva / A pescare, con l’arida pianura alle spalle». Scrive D’Ina nella prefazione, «La nostra Terra arsa è percorsa dall’immaginazione del poeta, che la propone come un labirinto, un labirinto-mondo, dove le parole diventano metallo incandescente, dove la denuncia è della nostra storia, passata e presente.
Lo sguardo e le parole dell’autore sono per gli indifesi, per coloro che cadono a causa di altrui irresponsabilità, per chi resiste grazie a manifesta superiorità emozionale, per chi resta in piedi nonostante il costante abuso di attualità».