Vi sono dei periodi, o a volte anche soltanto degli eventi epocali, capaci di svelare con inquietante chiarezza quell’ineffabile chiasmo in cui la ruota instabile delle vicende umane si connette con l’astuzia della storia. Producendo una specie di istantanea da cui è possibile intuire i contorni netti del tempo presente.
In questo senso, pochi sono i dubbi sul fatto che il crocevia della nostra epoca sia rappresentato dall’incontro, che sempre più si rivela come una vera e propria simbiosi, fra religione ed economia: «Come l’uomo è dominato nella religione dall’opera della propria testa, così nella produzione capitalistica egli è dominato dall’opera della propria mano» (Marx).
O meglio, tra il fondamentalismo di una razionalità strumentalistica, egoistica e mercatista, e la dimensione di una fede in cui l’essere umano rinuncia alla propria centralità, per votarsi anima e corpo a divinità mondane che, in cambio della sua libertà e autonomia, dovrebbero garantirgli ogni tipo di progresso (infinito) e salvezza (immediata).

Del resto, quello tra economia e religione si rivela uno strettissimo rapporto simbiotico che può essere riscontrato fin dalla notte dei tempi, se è vero il termine «mammona» (con cui nel Nuovo Testamento si definisce la ricchezza) deriva da quella radice «’mn» che è la medesima del verbo «credere».
Certo è che la fede nelle virtù ascetiche e salvifiche del denaro, però, destinava il fedele che intendeva sottomettersi a questo tipo di religione (l’etimologia di religio richiama il raccogliere, o anche l’accumulare, in questo caso ricchezza materiale) a una sorta di «cattivo infinito» hegeliano dagli esiti nefasti.
«Chi cerca il denaro, il denaro lo affamerà», recita il Qohelet (5,9), ed è qui che risiede l’origine ideologica della nostra epoca neo-liberistica: fondata al tempo stesso sull’illusione che un progresso infinito sia possibile malgrado la quantità limitata delle risorse naturali a nostra disposizione, nonché sulla sciagurata convinzione che le virtù di un mercato autoregolantesi possano garantirci proprio quel progresso infinito.

Se questo scenario che configura la nostra epoca di «nuova grande trasformazione», per utilizzare la celebre espressione di Karl Polanyi (a dimostrazione del fatto che la storia non può insegnare nulla, ad allievi che non intendano prestarle ascolto), rivela tutta la sua matrice al tempo stesso filosofica ed economica, nessuno meglio di un’autrice che è filosofa ed economista può essere in grado svelarne dinamiche e meccanismi di funzionamento (e dis-funzionamento).
È il caso del nuovo libro di Maria Grazia Turri, studiosa dell’Università di Torino, ovvero di un’imponente ed estremamente dotta ricognizione sul terreno insidioso in cui economia e teologia si incrociano per sostanziare i fondamenti della nostra epoca: Gli dei del capitalismo. Teologia economica nell’età dell’incertezza (Mimesis, pp. 363, euro 24).

L’autrice, con riferimenti e analisi finemente capaci di fondere, appunto, speculazione filosofica e teoria economica, ci spiega quello che si presenta a tutti gli effetti come un nuovo paradigma post-marxiano, in cui l’interazione dialettica tra economia e ideologia (filosofia), tipica del periodo classico del capitalismo, ha lasciato il campo a una nuova costellazione post-ideologica e post-politica, in cui l’economia recita il ruolo di produttore assoluto di scopi e valori a cui sottomettere ogni anfratto della dimensione umana.
Se il grande filosofo di Treviri, infatti, ci aveva raccontato, con profondità ineguagliata, il cosmo caratterizzato dalla dialettica fra struttura economica (sistema di produzione industriale) e sovrastruttura ideologica (teoria liberale, finalizzata a convincere che quella struttura rappresentava il migliore dei mondi possibili), Maria Grazia Turri – pur non abbandonando gli arnesi dell’analisi marxiana – ci spiega con dovizia di analisi e particolari un nuovo stadio del sistema di produzione capitalistica.

Per la precisione, quello in cui sembra avvenuta, a tutti gli effetti, la fusione fra struttura e sovrastruttura, con l’economia che ha assunto il pieno controllo della situazione, sostituendosi alle ideologie (dichiarate defunte) per vestire a sua volta i panni dell’ideologia unica e assoluta, e sottomettendo la politica per ridurla ad ancella ed esecutrice dei suoi dogmi inattaccabili.

Dio indiscusso della nostra epoca, per la studiosa torinese l’economia si avvale dell’ausilio di altre cinque divinità sapientemente declinate in funzione della magnificazione costante di quel Dio.
Attraverso raffinate ed originali analisi filosofiche, infatti, Turri ci spiega il ruolo imprescindibile del «Mercato» inteso come luogo della produzione infinita e fine a se stessa (espungendo ogni tipo di finalità umana); del «Denaro» inteso come unità di misura totale della realizzazione e quindi del valore di ogni individuo; della «Libertà» intesa in senso egotico e solipsistico, quindi innanzitutto come libertà «dagli» altri individui e dalla res publica, ormai anacronistica; della «felicità» perversamente concepita come oggetto conchiuso nelle maglie strette del proprio «io», dunque assolutamente non condivisibile e anzi ottenibile soltanto al prezzo di estorcerla agli altri.

Infine, la «Razionalità», che declinata esclusivamente a mo’ di pensiero calcolante e anti-relazionale, si rivela come la divinità forse più funzionale al regno di Economia. Soprattutto nella misura in cui, alleandosi con la tecnica, ha saputo farsi «oggettivazione calcolante» (Heidegger): è in questo modo che la «tecnica tecnologica applicata alla tecnica finanziaria ha dato origine alla cyberfinanza, forma di dominio sociale per eccellenza».

Cinque divinità che, riconfigurate in seguito alla caduta degli dèi propri del mondo industriale, riducono il mondo umano ad agenzia al servizio di un pensiero unico e incontrastato.
Di un nuovo mondo dove c’è spazio soltanto per gli dèi del capitalismo. Che notoriamente non sono mossi da amore per l’uomo.