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«Il neoliberalismo è anche una forma di religione»: ne è convinta Corinne Lanoir, che abbiamo incontrato a Torino in occasione del convegno internazionale «Economia e teologia», svoltosi la scorsa settimana presso la Casa valdese, promosso da Centro teologico, Centro di cultura «Pascal» e Centro studi «Pareyson». Docente di Antico Testamento all’Istituto di Teologia Protestante di Parigi, Lanoir è una delle voci più interessanti del pensiero evangelico europeo contemporaneo. Viaggia regolarmente tra Nicaragua e Chiapas per tenere corsi di formazione biblica: non è un caso che da protestante si senta molto vicina alla teologia della liberazione.

Un teologo come Dietrich Bonhoeffer sosteneva che la nostra responsabilità di donne e uomini moderni è di vivere come se dio non esistesse. Al convegno torinese lo ha ricordato Riccardo Bellofiore, suggerendo che non si tratta di condannare le aberrazioni del neoliberalismo in virtù di principi etici meta-empirici, ma di additare le sue contraddizioni entro una prospettiva immanente. Quale teologia può accettare di porsi su questo piano secolare di confronto?

La teologia della liberazione può farlo, per almeno due ragioni. Se si assume la sua prospettiva, la teologia è sempre «seconda», nel senso che viene dopo l’esistenza e l’esperienza dell’esistenza, che presentano problemi concreti da affrontare e risolvere attingendo a strumenti di analisi politica, sociale ed economica immanenti alla realtà indagata. Solo in un secondo momento la teologia viene a interrogare le pratiche, valutare le azioni concrete, senza però pretendere di pronunciare l’ultima parola su di esse. Il processo di analisi e di critica non ha fine. In secondo luogo, la teologia non ha la pretesa di dire la sua su tutto: non può e non deve ambire né all’onnipotenza né all’ubiquità nella sua proposta di interrogazione e valutazione della realtà.

Com’è possibile che la fede cristiana condanni tanti scandali (idolatria del denaro, sfruttamento, diseguaglianza), ma la sua critica arretri di fronte al meta-scandalo del capitale? Lo «scandalo degli scandali» non è proprio l’esistenza della formazione capitalistica, fondata sul consumo degli esseri umani come portatori viventi di forza-lavoro?

Dipende da che cosa si intende per fede cristiana. Le teologie non sono tutte uguali. Lo specifico della teologia della liberazione è che cerca di aggredire il cuore del problema, perché è una teologia che vuole trasformare il mondo, non solo accomodare le cose per renderlo un po’ più vivibile. È chiaro che, se la prospettiva è la trasformazione, bisogna puntare direttamente al capitale e al neoliberalismo, criticandoli integralmente.


La teologia della liberazione ha lanciato una sfida potente all’alleanza regressiva tra chiesa cattolica ed economia di mercato. Che cosa è rimasto oggi di quella esperienza? Chi sono gli eredi di Gustavo Gutiérrez?

Siamo alla terza generazione e la teologia della liberazione, come era nelle sue intenzioni originali, si è arricchita di soggetti: i poveri infatti non devono essere solo oggetti, ma anche soggetti di teologia. E così ora il suo discorso si avvale del contributo di donne, indigeni, contadini, un ventaglio eterogeneo di gruppi che si identificano con alcune sue proposte, rielaborandole a partire dal proprio contesto. Questo perché, come ogni teologia dovrebbe riconoscere quando si guarda allo specchio, la teologia della liberazione è una teologia contestuale. Anche le sue preoccupazioni sono cambiate e si sono arricchite: all’economia, ad esempio, si è aggiunta come tema forte l’ecologia.

A differenza di quanto accade con alcuni economisti di sinistra, il pensiero economico mainstream né sollecita né sembra particolarmente sollecitato dalla teologia, È come se solo la parte oggi culturalmente «debole» cercasse alleanze ermeneutiche col pensiero teologico. Mi sbaglio?

No, ha ragione. Accade probabilmente perché il neoliberalismo ha già la sua teologia, intrinseca al suo stesso pensiero. Questa proposta di organizzazione economica (e politica) delle società si presenta anche come una forma di religione. Se si esamina la proposta neoliberale, ci si accorge che è una proposta religiosa. E almeno per tre motivi. Innanzitutto offre un paradiso qui e ora: il suo progresso e la sua modernità sono paradiso realizzato e realizzabile nell’oggi e nel mondo. Il benessere dato dall’accumulazione è paradisiaco. Allo stesso tempo, contempla anche una demonologia, una dottrina del peccato e un inferno. La ricerca dell’efficienza, che porta al paradiso, è ostacolata da coloro che operano un male chiamato solidarietà, che compromette l’efficienza. Nel discorso teologico dei neoliberali, la solidarietà è un peccato originale, un male radicale. Infine, il neoliberalismo è una religione sacrificale: il sacrificio dei poveri, di chi non ha posto in questa cosmologia dell’efficienza, è necessario per giungere al paradiso.

Esistono però anche teologie fiancheggiatrici del neoliberalismo. Ci spiega che cos’è la teologia della prosperità?

È una teologia che viene dal Brasile e dagli Usa, ma è presente oggi anche in altri Paesi dell’America Latina, in Asia e in Africa. Si basa su un principio molto semplice: se sei ricco, allora sei benedetto. Se sei povero, vuol dire che hai fatto qualcosa di male. La benedizione di Dio si manifesta nei beni materiali che acquisti. È una teologia individualistica che si addice benissimo al mercato e soddisfa tutte le sue richieste. Pretende di fondarsi sulla Bibbia, ma ne fa una lettura del tutto fantasmagorica (Gesù era ricco, usava profumi di pregio, ecc.). Un’altra caratteristica è il suo sincretismo: mescola idee vagamente new age ad altre cristiane o buddhiste, si compone di pezzi incoerenti e sparsi, assorbendoli e digerendoli come fa, d’altra parte, il neoliberalismo. Non ha uno scheletro ragionato. È una teologia fast food.

Durante il convegno, Luigino Bruni ha citato l’economista e pastore Philip Wicksteed, il quale, all’inizio del secolo scorso, asseriva che il principio di tutti i rapporti economici fosse il «non-tuismo». Né egoista né altruista, l’economia sarebbe «non-tuista», nella misura in cui acconsente a che si stringano rapporti empatici e pro-sociali con tutti tranne che con la persona che si ha di fronte nello scambio economico. Per Wicksteed, quando la controparte diventa un «tu», si esce dall’ambito dell’economia. Quanto è anti-cristiano, a suo giudizio, questo presunto principio fondamentale?

Moltissimo. Se pensiamo ad esempio alla parabola del Buon Samaritano, si comprende subito in che senso il mio prossimo è innanzitutto la persona che mi sta immediatamente davanti. In che senso, cioè, il cristianesimo è un messaggio «tuista», il cui ambito è definito dal «tu». Non posso costruirmi il mio prossimo come voglio, dove mi fa comodo andarlo a cercare. Il prossimo è la persona che mi viene incontro ed è con questa presenza che sono chiamato a trovare il modo di instaurare relazioni solidali, di costruire qualcosa di decente, di giusto, di vivibile.

Si possono individuare modelli di economia alternativa nelle scritture ebraiche?

Modelli forse no, ma ci sono alcune storie in questo senso molto interessanti. La mia preferita è un piccolo miracolo contenuto nel Secondo Libro dei Re. Si narra della riacquisita capacità di sostentamento economico da parte di una vedova che aveva perso tutto ed era assediata da creditori che minacciavano di ridurre i suoi figli in schiavitù. Suggerisco di leggere questi pochi versetti e di riflettere sull’elemento di svolta del racconto, che non è esplicitato: la solidarietà gratuita dei vicini della donna, che le accordano la fiducia necessaria perché lei possa avviare una piccola attività e ricominciare a vivere.