Non è che l’inizio, l’inizio di una perigliosa navigazione, però l’affollata assemblea di domenica al teatro Brancaccio ha riunito le isole dell’arcipelago della sinistra, quelle che nel referendum del 4 dicembre hanno vissuto e condiviso la felice battaglia per la Costituzione.

Accanto a una straripante partecipazione, molto importante per l’avvio dell’impegnativo cammino, sono emersi tuttavia forti accenti identitari, una scarsa propensione all’unità.

Anzi, di più: l’impressione netta è che per il momento i carri della carovana della sinistra in costruzione siano due. Orientati verso direzioni diverse e distinte.

Forse potrebbero incontrarsi per strada, ogni tanto, per convergere su alcune battaglie politiche e sociali comuni.

Ma se si votasse domani la spinta prevalente sarebbe a favore di due liste separate, il contrario di quel che i due promotori, Anna Falcone e Tomaso Montanari, intendono perseguire con la loro coraggiosa iniziativa.

Sarebbe un esito molto negativo.

Naturalmente non per chi pensa che venti deputati e un bottino elettorale del 3% siano l’obiettivo da raggiungere, ma sicuramente per chi ancora spera in un’aggregazione larga, con l’ambizione di oltrepassare i confini fin qui tracciati dagli attori rimasti in campo negli ultimi, drammatici anni della crisi.

L’elenco dei presenti all’incontro fa capire che le «isole» sono tantissime.

I promotori Montanari e Falcone di Alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza, Sinistra Italiana, i Rifondaroli, i fuorusciti dal Pd e ora Art.1- Mdp (pochissimi), e D’Alema, Castellina, Civati, Ingroia, de Magistris (Claudio). Storie e vite politiche molto diverse tra di loro, ma non per questo meno animate da una viva e giusta convinzione: che c’è un mondo – piccolo, medio o grande che sia – oltre il Partito democratico.

Però quello che si notava di più era proprio l’assenza dei tanti che in questa lunga traversata nel deserto della crisi, hanno voltato le spalle alla sinistra decidendo di non votare. Anche se c’erano esempi, esperienze portate al microfono da nuove generazioni, ragazze e ragazzi dei movimenti sociali.

E però nel rosso teatro viveva un terzo elemento, che si è mostrato ai presenti platealmente. La contestazione. Il rifiuto.

Tangibile quando ha parlato il senatore Miguel Gotor, uscito dal Pd con Bersani: le sue parole sono state coperte dalla sala rumoreggiante, contenuta a fatica dagli organizzatori. L’episodio ha messo in rilievo il sentimento prevalente della riunione: mai un centrosinistra con Renzi, tenere alla larga quelli del Pd perché hanno contratto un «virus».

Ma se un ex, un fuoriuscito dal Pd viene a dire che si riconosce nei valori e nei contenuti dell’assemblea, non dovrebbe essere considerato come un nemico del popolo. Quindi un ostacolo in più. Bensì il segno tangibile di un meritato consenso.

L’immagine offerta al Brancaccio dalla platea e dagli intervenuti al dibattito, fa dunque risaltare, insieme alla vivacità e ai colori di una radicata presenza nella società, insieme all’orgoglio di una militanza tanto preziosa, i punti più deboli di una «alternativa» (non di governo) di sinistra: la mancanza di una reale unità; lo scarso interesse verso chi negli ultimi anni ha deciso di non impegnarsi, perché disilluso e poco attratto dalle «minestre riscaldate»; la prevalenza di quelli convinti di avere la «giusta» linea.

E quindi come uscirne? Non avendo la bacchetta magica possiamo solo avanzare qualche suggerimento, sul filo dei discorsi fatti in passato sostenendo che «c’è vita a sinistra».

Innanzitutto non dovrebbero prevalere atteggiamenti divisori, perché se è corretto sostenere che con Renzi non c’è futuro a sinistra, è sbagliato invece porre paletti o veti nei confronti di chi ha rotto, con dolore e con fatica, con il proprio passato (penso a Bersani e ai bersaniani).

Poi ognuno dei «costruttori per l’alternativa», dovrebbe essere in grado di dire, innanzitutto a se stesso, che non esistono questioni politiche irrinunciabili (tranne quelle legate ai valori e ai principi) e anche a questo serve una piattaforma programmatica.

Terzo punto, di conseguenza, bisognerebbe elaborare un programma politico economico e sociale per il Paese, sia sul breve che sul lungo periodo.

E, infine, last but not least, identificare una leadership, un punto di riferimento, preferibilmente femminile, capace di unire, mettere insieme, essere protagonista. La presenza dei leader è servita alla sinistra inglese e americana per riunire le forze sparse alternative, di sinistra, democratiche, riformiste. Va preso atto che oggi la politica, in Italia e nel mondo, si fonda anche sul leaderismo. Che non significa avere una persona sola al comando, come Renzi, Grillo, Berlusconi, Salvini.

La fantasia al potere è uno slogan che l’anno prossimo compie cinquant’anni, quanti ne sono passati dal 1968. Di quella fantasia ne abbiamo ancora un discreto bisogno, anche sul terreno della leadership che deve rappresentare un contenuto altrettanto forte e radicale.

Alla fine dell’estate questa perigliosa navigazione dovrebbe trovare l’approdo in una Costituente, come suggeriva su queste pagine Alberto Asor Rosa.

Ovvero il risultato, l’approdo di un processo largo e democratico che discute le forme, il nome, il simbolo di una forza, di una Nuova Sinistra. Una prospettiva per la quale lavoreremo per aiutare un esito felice di questo processo.