«Per divenire sciamano, bisogna evitare che gli occhi si muovano dappertutto contemplando il suolo o osservando gli abitanti della casa. Ecco perché mi sforzavo di mantenere sempre lo sguardo verso il cielo. Se non l’avessi fatto, non avrei mai potuto vedere gli spiriti. I miei occhi erano quelli di uno spettro e intorno a me non vedevo più niente. La mia vista e il mio pensiero erano concentrati sugli xapiri. Così, a lungo andare, si sono finalmente manifestati. Li ho visti venire verso di me dalle altezze del cielo in una intensa luminosità tremolante…».
Prima di imparare a fissare il cielo, prima di assumere la yãkoana, polvere allucinogena e nutrimento degli spiritelli xapiri, prima di affidarsi alla tradizione per «diventare altro», Davi Kopenawa, famoso sciamano e attivista yanomami, era stato costretto a trascurare la propria vocazione, o indotto a disperdere i propri sguardi in quelli dei bianchi. Nato intorno al 1956 nella foresta tropicale del Nord-Est brasiliano, al confine col Venezuela, sopravvissuto di una famiglia decimata dal morbillo dei missionari, alla fine degli anni sessanta Kopenawa era stato assunto come interprete dal FUNAI, l’ente governativo di protezione degli Indios. Aveva tentato in quel periodo di seguire le idee del suo superiore e, con ogni sforzo, di «diventare un Bianco». Viaggiando fra gli avamposti in «camicetta e jeans stretti», avrebbe scoperto invece la vera estensione del territorio yanomami e insieme le dimensioni e la violenza della depredazione perpetrata dal «Popolo della merce». Sempre più a disagio, e consapevole della minaccia che incombeva sulla foresta tropicale e sulla sopravvivenza del popolo amerindo, convinto infine che «imitare i bianchi non serve a nulla», decise quindi di abbandonare il lavoro per stabilirsi nel villaggio di Watoriki. Qui, sotto la guida del suocero Lorival, il «grande uomo» della comunità locale, intraprese quel ritorno alla tradizione o alla vocazione giovanile che era per lui ormai inseparabile dalla lotta per la sopravvivenza, e che ne farà, con l’aiuto degli xapiri, il difensore dell’ambiente amazzonico e dei suoi abitanti di fronte all’Assemblea delle Nazioni Unite. È in questi anni di apprendistato, e mentre i cercatori d’oro degli anni ottanta saccheggiavano il territorio e facevano strage degli Yanomami, che Kopenawa consoliderà la propria amicizia con l’antropologo Bruce Albert e inizierà a registrare con lui una lunga serie di interviste e testimonianze.
Tradotti, introdotti e ordinati dallo stesso Albert, questi materiali compongono oggi lo splendido libro a quattro mani La caduta del cielo Parole di uno sciamano yanomami (traduzione di Alessandro Lucera e Alessandro Palmieri, Nottetempo, pp. 1071, euro 35,00). Si tratta di un corpus straordinario, scandito in tre parti principali, fatto di profezie «sui fumi dell’oro, la morte degli sciamani» e la distruzione dell’opera del demiurgo Omama (la grande struttura vivente che regge il cielo); quindi di ampie e dettagliate narrazioni mitologiche che virano e si fondono nel memoriale autobiografico, nonché di continue e attente osservazioni sull’esistenza triste e la condotta crudele dei bianchi, che restituendoci la nostra incapacità di abitare, di pensare e di sognare, possono offrirci la possibilità di un’estrema presa di coscienza, al colmo della nostra vertigine distruttrice.
Questo libro appassionante ha in effetti un tenore antropologico e insieme filosofico e cosmopolitico; chiama in causa una tensione ecologica così inseparabile dalla vita che non ha bisogno di un nome che la definisca, né di una scelta o di una conversione che la metta in atto: «Nella foresta, siamo noi esseri umani a essere l’ecologia. Ma, come noi, lo sono anche gli xapiri, la selvaggina, gli alberi, i fiumi, i pesci, il cielo, la pioggia, il vento e il sole! È tutto quello che è venuto all’esistenza nella foresta, lontano dai Bianchi; tutto ciò che non è stato ancora circondato da recinzioni. Noi siamo abitanti della foresta. Siamo nati al centro dell’ecologia e qui siamo cresciuti. Le parole dell’ecologia sono le nostre antiche parole, quelle che Omama ha donato ai nostri antenati».
È in virtù di tale solidarietà degli esseri nello spazio e nel tempo che Kopenawa – come ha scritto Claude Lévi-Strauss – «non separa la sorte del suo popolo da quella del resto dell’umanità», e difendendo le proprie credenze e i propri riti, si adopera per la sopravvivenza anche dei «suoi più crudeli nemici». Egli enuncia insomma «i principi di una sapienza da cui dipende, e siamo ancora in pochi a comprenderlo, anche la nostra salvezza». Alle parole appassionate di Lévi-Strauss fanno poi eco quelle del suo erede Eduardo Viveiros de Castro: «La Caduta del cielo è un evento scientifico senza precedenti, e ho il sospetto che richiederà diversi anni per essere debitamente assimilato dalla comunità antropologica. Ma spero che tutti i lettori sapranno identificare senza indugio l’evento politico e spirituale molto più ampio, e di enorme valore, che esso rappresenta. È giunta l’ora, insomma; abbiamo l’obbligo di prendere assolutamente sul serio quello che dicono gli indios attraverso la voce di Davi Kopenawa – gli indios e tutti gli altri popoli ‘minori’ del pianeta … che ancora resistono alla totale dissoluzione causata dalla centrifuga modernizzante dell’Occidente».
Proprio il libro che Viveiros de Castro e la filosofa Déborah Danowski hanno dedicato al tema tanto urgente quanto arduo dei mutamenti ambientali prodotti dall’uomo, cioè al cosiddetto Antropocene, rappresenta in effetti il tentativo più radicale di dar seguito alla sapienza yanomami: giustamente ammirato da Bruno Latour, sorretto da un robusto apparato teorico (che fonde le posizioni di Günther Anders con quelle di Hans Jonas, nonché di Isabelle Stengers e di Donna Haraway), il loro Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine (anche questo tradotto da Lucera e Palmieri per Nottetempo, pp. 289, euro 17,00) è un lavoro acuto, costruito intorno alla ripresa brillante di una nota divisa andersiana. Siamo «uomini senza mondo», dicono appunto col filosofo gli studiosi brasiliani, nel senso che la fine di questo mondo, occidentale, capitalistico, non è una possibilità ma un dato di fatto acquisito e irreversibile (tale è, come si sa ormai da tempo, lo scioglimento dei ghiacciai). Ma la fine di un mondo, aggiungono Danowski e Viveiros de Castro, non è per forza la fine di tutto. Se la fantascienza può forse aiutarci a immaginare una vita senza mondo, i popoli amazzonici – ai quali la terra, la tradizione, ogni cosa è stata sottratta dai conquistadores – ne attestano invece la possibilità reale. Scampati al primo sterminio come alle persecuzioni più recenti, gli indios sono riusciti persino a moltiplicarsi, inventando stili e tecniche raffinate di sopravvivenza, e mitologie adeguate. In primo luogo, «pensano che, tra il cielo e la terra, esistano molte più società … di quante ne sognino la nostra antropologia e la nostra filosofia. Ciò che noi chiamiamo ambiente è per loro una società di società … una cosmpoliteia. Non esiste dunque una differenza assoluta … tra società e ambiente, come se l’una fosse il “soggetto” e l’altro l’“oggetto”. … L’espressione … dei giovani militanti di sinistra “tutto è politico” acquista nel caso amerindo una letteralità radicale».
Tutti gli esseri sono l’ecologia, tutto è sociale, ogni essere è politico. E se vivere significa ormai anche per noi sopravvivere, cioè abbandonare gli usi nocivi, le attitudini suicide a favore di una vita resistente, dobbiamo guardarci con lo sguardo puro dello sciamano, provare verso noi stessi la paura o l’orrore che bisogna provare per avere finalmente una coscienza, e agire, quando il cielo cade, per salvare gli altri e noi.