Per chi non ne conosce il lavoro al fianco di Spike Lee, come interprete in diversi film ma anche come sceneggiatore di Summer of Sam, il volto di Michael Imperioli resta la «maschera» di Christopher Moltisanti, il nipote ribelle di Tony Soprano nella serie che vedeva come protagonista l’indimenticabile James Gandolfini. 52 anni, salde radici italoamericane ben piantate a Mount Vernon, periferia residenziale newyorkese a nord del Bronx, Imperioli non scrive però solo per il cinema. Pubblicato lo scorso anno negli Stati Uniti, il romanzo Il profumo bruciò i suoi occhi (Neri Pozza, pp. 208, euro 16,50, traduzione di Serena Prina) ha ottenuto un largo successo e incassato, tra gli altri, il plauso di Joyce Carol Oates.

Fin dal titolo, tratto da un verso della canzone «Romeo Had Juliette», il libro rappresenta, mediato dallo sguardo e dalle emozioni di un adolescente, una sorta di omaggio alla figura di Lou Reed e alla feconda stagione culturale della New York della seconda metà degli anni Settanta, di cui l’artista scomparso nel 2013 fu uno dei simboli.
Tra gli ospiti di Salerno letteratura, Imperioli dialogherà oggi alle 19,30 con Francesco Durante nell’Atrio del Duomo della città campana.

Un romanzo di formazione entusiasmante ma bizzarro, il suo, con un eroe del punk che accompagna la crescita di un giovane. Come è nata l’idea?
Ho cominciato a scriverlo nell’estate del 2013, quando mio figlio aveva 13 anni e stata attraversando le classiche turbe dell’adolescenza. All’inizio volevo solo cercare di entrare in contatto con lui. Per questo ho immaginato un protagonista che avesse più o meno la sua età. Lou Reed è morto tre mesi dopo, il 28 ottobre. Erano dieci anni che ci eravamo conosciuti e avevamo stretto amicizia. Prima, da ragazzo, lo consideravo un eroe, conoscevo tutte le sue canzoni. Perciò, la sua comparsa mi ha toccato talmente in profondità che ho deciso che il personaggio del romanzo lo avrebbe frequentato.

Come aveva conosciuto Lou Reed?
L’ho incontrato a una partita dei Knicks (una delle squadre di basket di New York). In quel periodo stavo girando I Shot Andy Warhol e gli chiesi cosa pensasse di quel progetto, visto che aveva conosciuto personalmente i protagonisti della vicenda. Interpretavo la parte di Ondine, l’attore preferito di Warhol, e lui si limitò a dirmi: «Ascolta, fai il tuo lavoro. Ma ricorda solo che Ondine era molto, molto divertente». In seguito ci incrociammo al Village, dove abitavamo entrambi e cominciammo a parlare un po’. Alla fine, dopo un suo concerto a metà anni Novanta, mi vide tra il pubblico e mi fece chiamare dopo lo spettacolo per chiedermi come era andata. Da quel momento non ci siamo più persi di vista.

Il rapporto tra Matthew, il teenager protagonista del romanzo e la rockstar è quasi alla pari: entrambi hanno bisogno dell’altro.
In effetti, sia Matt che Lou hanno in qualche modo perso degli affetti importanti nel momento in cui si incontrano, per il ragazzo si tratta del padre morto, per Lou è invece una relazione che è appena andata in frantumi. Si appoggiano l’uno all’altro. È quasi scontato che il ragazzo voglia imitare questo personaggio leggendario. Meno evidente che accada anche il contrario. Lou avverte che nel giovane c’è qualcosa che gli appartiene, una certa purezza, una vulnerabilità di fondo che conosce e riconosce, che forse ha perso crescendo, ma di cui ha ancora bisogno.

Eppure, il punk, di cui Reed è considerato un ispiratore, annuncerà il «no future», l’assenza di una prospettiva che non sia racchiusa nell’intensità di quanto si sta vivendo.
È vero, Lou Reed è stato per molti versi uno dei primi punk, ha aperto la strada ad uno stile e ad un linguaggio, non solo musicali. Il suo approccio era però diverso dal timbro nichilista, di perdita dell’innocenza che al movimento sarebbe arrivato soprattutto dalla scena inglese, penso in particolare ai Sex Pistols. Il marchio di fabbrica di Lou credo fosse quello di infondere un senso letterario, direi quasi poetico, al rock and roll, mescolando le atmosfere e la vita della strada ad una ricerca più elaborata, non solo istintiva. Amava il pop e immaginava di far incontrare la Beat Generation, Ginsberg, Kerouac, ma anche Hubert Selby e Edgar Alla Poe, con la musica del suo tempo. La sua sfida, e la sua eredità in seno alla scena musicale newyorkese, si misura perciò prima di tutto sul piano estetico.

Questo romanzo si misura però anche con una stagione precisa della storia di New York e con la scoperta che il protagonista fa della metropoli.
All’inizio della storia, Matthew abita a Jackson Heights, che anche se fa parte a tutti gli effetti della città di New York e dista solo un paio di miglia di Manhattan, rappresenta un mondo completamente diverso. E anch’o, che sono nato e cresciuto a Mount Vernon, ho per certi versi scoperto la città più o meno alla sua età. Quando avevo 17 anni, un po’ come accade a lui, mi sono trovato a frequentare una scuola di Manhattan e posso dire che è stato come se fossi sbarcato su un pianeta sconosciuto. Era l’inizio degli anni Ottanta e New York era ancora immersa nell’atmosfera in cui si muoveva Lou Reed. Vivere lì costituiva un esperimento quotidiano di libertà. La città che ho conosciuto all’epoca sembrava dirti: «Puoi scegliere qualunque cosa, essere tutto ciò che vuoi». Eri letteralmente immerso nella «diversità», potevi scoprire quasi ogni cosa e portarla nella tua vita: persone tra loro molto lontane, non solo poveri e ricchi, vivevano negli stessi luoghi, mescolandosi di continuo. In seguito ho vissuto all’East Village e da studente che cercava la sua strada tra il cinema e la scrittura devo dire che non mi sono mai più sentito circondato da una tale creatività per tutto il resto della mia vita.

Da questo punto di vista, il romanzo sembra descrivere una sorta di mondo perduto, quello nel quale i locali dove si esibiva Lou Reed o i Ramones sorgevano a pochi isolati da Wall Street. Poi, anche New York è cambiata, uniformandosi a regole più strette. C’è chi dice che sia avvenuto in contemporanea con l’arrivo dei Trump nell’industria immobiliare di Manhattan. Come sono andate le cose?
Non so se ci sia stato anche lo zampino dei Trump, ma certo è avvenuto durante l’amministrazione di Rudy Giuliani – proprio una figura molto vicina all’attuale presidente – che divenne sindaco nel 1994 e dichiarò che avrebbe «ripulito» la città dal crimine, ma anche dai senza tetto e dai mendicanti, dando poteri speciali, e mano libera, alla polizia. Il risultato furono però molti abusi e una lunghissima serie di arresti e chiusure di locali che cambiarono letteralmente il volto di New York e annunciarono la privatizzazione degli spazi urbani. Per dire, a Times Square arrivò la Disney che si comprò gran parte degli edifici della piazza. Il valore degli immobili schizzò così in alto che molti dei vecchi abitanti furono costretti a trasferirsi sempre più lontano da Manhattan. Inoltre, l’arrivo dell’Aids diede la mazzata finale alla scena artistica cittadina, mietendo un gran numero di vittime, a cominciare proprio dalla scena musicale. L’altro risultato tangibile di questa stagione fu che il paesaggio sociale della città finì per essere violentemente uniformato. Prima ogni quartiere aveva una sua peculiarità, l’East Village non era il Greenwich Village, Chelsea non era Soho e via dicendo. Ogni zona aveva le sue caratteristiche. Oggi, al contrario, sembra tutto uguale.

Lei ha scritto «Summer of Sam» con Spike Lee, un film che racconta la crescita del razzismo anche a New York. Come guarda a quello che sta succedendo nel suo paese?
Purtroppo, oltre che grazie all’aiuto dei russi che hanno manipolato ben bene l’opinione pubblica durante la campagna elettorale, Donald Trump è stato eletto proprio perché ha promesso alcune delle cose terribili che sta realizzando ora. Come l’idea di tirare su muri e cacciare via le persone in base alla loro origine. Perciò, mi auguro che questo periodo drammatico passi il più velocemente possibile e lasci il minor numero di tracce nella nostra società. Voglio dire che spero che Trump si riveli solo un epifenomeno nella storia americana e che il paese torni alla sua tradizione di libertà, accoglienza e valorizzazione delle diversità. È ciò in cui credo. E spero davvero di non sbagliarmi né sulla rapida archiviazione di questa fase feroce, né sulla vera identità degli Stati Uniti.