Innamorato del neorealismo come delle opere di Martin Scorsese – nel suo film più celebre, Il condominio dei cuori infranti (2015), una donna araba accoglie un astronauta atterrato sul suo palazzo di banlieue come se ci si trovasse in una scena di Miracolo a Milano, mentre in J’ai toujours rêvé d’être un gangster (2008), si è ispirato esplicitamente all’incipit di Quei bravi ragazzi – Samuel Benchetrit è una figura anomala del panorama culturale francese. Nato a Champigny-sur-Marne, nella periferia meridionale di Parigi, è arrivato al cinema, e alla letteratura, da ragazzino, dopo aver abbandonato la scuola a quindici anni e aver cominciato a frequentare i set cinematografici della capitale, lavorando tra gli altri a lungo con Jean-Louis Trintignant.

Attore, regista, scrittore ha ormai all’attivo una decina di libri e almeno una trentina tra film girati, scritti o interpretati e, malgrado sia una figura nota del mondo dello spettacolo – già – già compagno di Marie Trintignant è ora al fianco di Vanessa Paradis -, sembra non aver perso lo sguardo irriverente e curioso del ragazzo di periferia. Con il suo nuovo romanzo, Ritorna (Neri Pozza, pp. 240, euro 17,00, traduzione di Roberto Boi) racconta la bizzarra avventura di uno scrittore in crisi di ispirazione che farà letteralmente di tutto per ritrovare la propria vena creativa, ma anche una copia di un suo vecchio libro da cui inaspettatamente un produttore vuole trarre una serie. Una storia condotta, come è consuetudine per Benchetrit, sul filo del paradosso e alla ricerca dei sentimenti più profondi che legano gli individui.

Al momento dell’uscita di «Ritorna» in Francia lo ha definito come un «libro-amico», vale a dire?
Pensavo alle parole di Holden Caulfield, il protagonista del Giovane Holden di Salinger che desidera avere un libro cui fare ricorso nei momenti di difficoltà, che possa «salvargli la vita» quando è più giù. Un amico è qualcuno che vi capisce, che vi fa ridere, che è pronto ad ammettere che anche lui ha dei momenti cupi o delle «zone buie» dentro di sé. Ma c’è anche dell’altro. Non volevo scrivere un romanzo «contro» che proiettasse sul mondo uno sguardo triste o, peggio, negativo. Al contrario, pensavo ad una storia lieta, qualcosa da racchiudere in un piccolo libro che si può mettere nella tasca della giacca per tirarlo fuori quando se ne ha voglia solo per rileggerne un passaggio e sorridere.

Il romanzo si presenta come una riflessione sulla perdita o meglio sulla mancanza, sul rischio di smarrire il filo emotivo della propria vita, la capacità di amare e essere amati, di creare e mettersi in gioco. Ma non è certo si tratti di una fase di passaggio o di una condizione definitiva…
Non siamo ancora nel territorio della perdita, che per definizione evoca qualcosa di irreversibile: la fine dell’amore, la morte di una persona cara. Ma è certo che nella vita del protagonista manca qualcosa, molte cose, forse tutto. Probabilmente lui manca anche a se stesso. Tutti noi abbiamo una forte relazione con l’abbandono. Per parte mia, è legato alle mie radici ebraiche, alla mia infanzia e a certi stadi della mia vita. In questo caso si tratta di uno scrittore che non riesce più a scrivere e che passo dopo passo si metterà come un detective privato sulle tracce della sua ispirazione perduta. Allo stesso modo sente la mancanza di suo figlio che, appena diventato maggiorenne ha scelto di andare a vivere per conto suo. Il ragazzo è geloso della sua indipendenza, ma il padre ha bisogno di sentirlo, di avere sue notizie anche se vuole rispettare i limiti che gli sono stati dati. E poi ci sono i suoi amori incerti, le donne che ha perduto e quelle che ancora non ha trovato. È malinconico ma non disperato. Il suo stato d’animo mi fa pensare alla bella frase di Victor Hugo, che diceva che «la malinconia è la felicità di essere tristi». Ma, soprattutto, il protagonista ha la sensazione di essere immobile mentre tutto il resto del mondo corre intorno a lui; spesso è questa l’anticamera della depressione. Perciò. pian piano, senza prendersi troppo sul serio e mettendo molta ironia in quello che fa, ricomincerà «a muoversi». Scoprirà così che basta uscire di casa, scendere per strada, per compiere dei viaggi straordinari, per fare delle scoperte che possono cambiare la nostra giornata. Ma talvolta anche la nostra vita.

Samuel Benchetrit

Nel libro emerge ancora una volta quella che sembra essere la «chiave» principale per comprendere il suo lavoro, sia letterario che cinematografico, vale a dire la riflessione intorno alla «tenerezza». Non c’è posto per il cinismo né per il giudizio nello sguardo che rivolge sugli individui come sulla società? E sono queste le caratteristiche principali dei suoi personaggi?
Viviamo immersi in una sorta di cinismo permanente che si tratti di come i politici si dicono capaci di affrontare i problemi delle persone, che invece dimenticano, del modo in cui i ricchi guardano ai poveri, del razzismo. E penso che la sola risposta a questa marea di cinismo che ci circonda sia proprio la tenerezza. Quando le persone ne hanno abbastanza, dimenticano la propria tenerezza e diventano dei rivoltosi. Ma credo che anche nella rivoluzione si possa trovare della tenerezza: anzi che sia per quella via che può passare la nostra rivolta. Eppure, quando si fanno simili considerazioni è quasi automatico farsi trattare da «naif», da sempliciotti. E questa mi sembra la forma suprema di cinismo. Ci si dimentica così che il senso più profondo della vita non sono i soldi, il potere, perfino la salute stessa. No, è l’amore, in tutti i sensi. L’amare e l’essere amati. Perciò, quali siano le prove alle quali l’esistenza ci sottopone tutti, sono convinto che saranno in ogni caso i più teneri ad avere la meglio. Anche perché la tenerezza è un po’ come una corazza, al contrario di quanto pensano in molti, ci può proteggere da ogni male.

Sfidando i luoghi comuni sull’argomento, questa stessa tenerezza emerge nel racconto della vita nelle banlieue che lei ha fatto nel «Condominio dei cuori infranti», prima il romanzo e quindi il film, come in molte altre sue storie.
I miei libri parlano della banlieue in un modo diverso, non solo come un territorio pericoloso e violento, ma anche come un luogo in cui vivono persone meravigliose. Questi quartieri sono come i bambini in una famiglia, uno dei quali si è perso lungo la strada. Però, più viene rifiutato e più si chiuderà e si ribellerà. Fino alle estreme conseguenze. Dopo aver descritto queste zone nel modo peggiore – la violenza, la droga, l’illegalità – si agita la paura che tutto ciò ispira ai cittadini per prendere più voti, per mantenersi in testa nei sondaggi d’opinione. Detto questo, certo che nelle periferie francesi c’è violenza, e anche molta, ma non c’è solo questo. Al punto che quelli che con il passare degli anni sono stati trasformati in una sorta di ghetti urbani, dove sono state stipate milioni di persone, tra cui moltissimi giovani, rappresentano probabilmente il futuro del paese da ogni punto di vista: per il lavoro, lo studio, la musica, la creazione artistica. Eppure, per un ragazzino crescere da queste parti può essere orribile, proprio perché si è circondati dal rigetto, dal pregiudizio e si fatica a far emergere la propria dimensione reale: quella a cui cerco di dare voce in ciò che faccio.

Negli ultimi anni in questi quartieri sono cresciute le violenze contro gli ebrei – nel 2006 il giovane Ilan Halimi fu rapito e ucciso in quanto ebreo da suoi coetanei della banlieue parigina. Lei viene da una famiglia marocchina di origine ebraica, come vive tutto ciò?
Quando ero ragazzo e vivevo nella periferia di Parigi c’erano molti altri ebrei nelle case popolari. All’epoca non sapevo nemmeno cosa fosse l’antisemitismo. Il primo ragazzino che mi ha picchiato era francese, cattolico e bianco. Non vivo più in quella zona da tempo, ma so che oggi in molti si sentono in pericolo. A causa della mancanza di educazione tra i giovani delle periferie c’è chi può credere ai cliché sugli ebrei «tutti ricchi» e via dicendo, fino alla minaccia che per certi versi in questi anni di crisi economica la storia torni tragicamente a ripetersi. Sono ebreo, i miei figli si considerano ebrei. Essere ebreo è una responsabilità, un orgoglio e anche una sorta di rabbia: se qualche anno fa ho accettato di interpretare in un film il ruolo di Pierre Goldman – un intellettuale e militante di sinistra ebreo ucciso dai Gal nel 1979 – è perché aveva denunciato l’antisemitismo attivo in Francia ancora negli anni Cinquanta. Ed è in quanto ebreo figlio di rifugiati che arrivavano dal Marocco che mi continuo a sentire ancora adesso «straniero» in questo paese e vicino a tutti coloro che sono oggetto di discriminazioni per questo.