La conquista dello spettatore (anche «cruenta», ma davvero «magica») si compie all’inizio di quella che non a caso è La tempesta del titolo: lampi, fumi e vapori, sciabolate di luce e rimbombi ci rendono subito protagonisti, o almeno partecipi, di quella sorta di rito, psichico oltre che atmosferico, della favola «a lieto fine» raccontata da Shakespeare.
Alessandro Serra non risparmia gli effetti per introdurci alla magia che è il teatro, di cui non a caso è protagonista il mago Prospero, che seguiremo per un’ora e quarantacinque minuti mostrare il peggio e il meglio di sé. Ovvero di come lui sia stato scacciato dal suo ducato in Milano, ad opera di concorrenti e parenti, e una volta sbattuto sull’isola abbia poi esercitato le sue arti per ridurre in sua potenza quelli che l’abitavano prima di lui: Calibano abbandonato lì dalla strega madre Sicorace, e la folletta Ariel, capace di sottili magie ma pur sempre in cattività. E che la tempesta in cui veniamo precipitati anche noi spettatori ad apertura di sipario, prelude alla vendetta del duca detronizzato, e alle pieghe del complesso racconto morale cui andiamo ad assistere.

CON IL SUO NUOVO spettacolo, La tempesta appunto (produzione dello stabile torinese, alle Fonderie Limone di Moncalieri fino al 3 aprile, e prossimamente a Reggio Emilia e all’Argentina di Roma), Serra costruisce una magica meraviglia, perfetta nell’estetica e nel sentimento, nella dinamica e nelle partiture che tra i personaggi si distribuiscono. E di cui gli spettatori sono obbligati partecipanti, davanti a quella magica, enorme pedana di legno grezzo che del palcoscenico teatrale è non solo simbolica base, ma vera anima generativa. Assieme ovviamente a quel gruppo di personaggi innalzati e sommersi dalle alterne vicende di premio e punizione, fino alla grande morale che da mezzo millennio Shakespeare ci porge, oggi efficace quanto necessaria: la giustizia tra i differenti valori (e caratteri, con i loro desideri, sensi e necessità) solo il perdono può però portare a compimento e stabilità. Il perdono che non è qui un bel gesto di fede o di bontà, ma una sofferta conquista personale e razionale, che mostra il proprio solido carattere politico, perché è solo la consapevolezza e l’accettazione dei rapporti tra le creature che vi ci possono condurre.
Insieme al Macbettu «barbaricino» è questo sicuramente il lavoro più grande e importante di Serra, ormai tra i nomi obbligati del teatro italiano. Si apprezza in ogni momento il suo minuzioso lavoro di costruzione, di spettacolo e di senso. Qualche piccola riserva semmai può fare capolino sulla «intellettualità» (ovvero la possibile complessità per qualche spettatore rispetto alla immediata comprensione) di un’opera così mirabilmente costruita, nella solo apparente «semplicità» di un meccanismo narrativo assai articolato, ovviamente controllato da una equipe necessariamente folta (che si mostra infatti numerosa agli applausi finali).

BRAVI SONO tutti gli attori, quelli cresciuti nella compagnia Teatropersona del regista, così come gli interpreti di Gonzalo e dello stesso protagonista Prospero (i più noti e già conosciuti Bruno Stori e Marco Sgrosso). E va citata l’emozione particolare che dà Chiara Michelini, quale Ariel capace di operare miracoli ma sempre in magica quanto letterale sintonia con le sue «vittime»: un Ariel diverso da tutti gli altri (e le altre) che l’hanno preceduta, e che ha come personale magia la consapevolezza e la padronanza di tutti gli artifici scenici e narrativi. Ma tutti sarebbero da citare, a cominciare dal Calibano di Jared McNeill. È lo stesso regista Alessandro Serra invece a firmare, oltre a traduzione e adattamento, anche scene, costumi, luci e suoni, personificazione assoluta di un teatro totale, mirato peraltro su ogni singolo spettatore.