Il governo di Enrico Letta è caduto, improvvisamente, perché Squinzi della Confindustria gli ha tolto, improvvisamente, l’appoggio. Si tratta forse della stessa forza finanziaria, industriale e sociale che Alcide De Gasperi, più di sessanta anni fa, considerava ostile e chiamava «il quarto partito»? Certo è il blocco, per chiamarlo così, che ne ha ereditato la sorte e la ricchezza. De Gasperi cercava allora di non farsi condizionare dal «quarto partito» perché era sicuro di rappresentare lo Stato repubblicano e democratico, popolare, e di doverlo difendere, sempre e comunque. Matteo Renzi, il nuovo segretario del partito democratico, discende da De Gasperi, probabilmente ne erediterà il ruolo, ma non ne ha conservato l’analogo senso di Stato. Anzi vede lo Stato come spreco diffuso, burocrazia intrigante e lentissima, spese pazze e inutili, corruzione dilagante e conta di rimpicciolirlo.
L’operazione di formare il nuovo governo è complicata per Matteo Renzi, molto di più di quanto si sarebbe aspettato. Egli è costretto a rallentare e per mantenersi vivo promette al tempo stesso altri successi, uno al mese, per i problemi del Senato, della legge elettorale, della semplificazione amministrativa e altri ancora. La cronaca è piena di attese.
La storia dei governi nuovi non cambia mai. Suggerimenti e veti della Politica, manuali Cencelli di ogni sorta, peso di interessi industriali, sindacali, corporativi, accademici, di amicizie e affinità regionali. Ci sono le grandi banche e c’è l’Europa. Una novità renziana, assai complicata, è l’esclusione di molte persone d’età, esperte o sedicenti tali (la cosiddetta rottamazione). Si può apprezzare che manchino oggi i suggerimenti di Usa e Vaticano, le due Segreterie di Stato che ieri contavano molto. In ogni caso le forze rimaste in campo si battono come possono per facilitare l’avvento di un governo fidato e di ministri amici, sbarrando la via agli avversari, veri o presunti, sgambettandoli preventivamente. Ogni mezzo è buono.
Nasce così il caso di Fabrizio Barca. Questi, economista, direttore generale al Tesoro, è stato ministro per la coesione sociale nel governo di Mario Monti. Sono in molti a temere (o sperare) che sia lui il prossimo ministro dell’economia. In un colloquio telefonico riservato con Nichi Vendola, presidente della Puglia e capo di Sel, unico partito di sinistra nel Parlamento italiano, Barca ha spiegato la preoccupazione, il vero e proprio disagio per una proposta, irrituale, al ruolo di ministro dell’economia. Racconta all’interlocutore di aver ricevuto segnali, mezze frasi, da parte di intermediari, senza che nessuno gli abbia mai chiesto quale sia la sua intenzione, se voglia partecipare al governo con un incarico di tale importanza e perché, cosa preveda di fare e come e con quali alleanze; senza alcuna curiosità sulla sua strategia preferita in ordine all’Europa e alla moneta. «Non c’è un’idea, è avventurismo: siamo agli slogan». Barca ormai non è più soltanto indispettito o addolorato per la scarsa attenzione nei suoi confronti, ma è soprattutto preoccupato per le conseguenze politiche generali. «Questo mi rattrista, sto male, sono preoccupatissimo perché vedo uno sfarinamento veramente impressionante….». Insomma si chiama fuori e al tempo stesso teme per il suo partito e per il paese che sta perdendo colpi.
C’è un penultimo aspetto. La telefonata in questione non è mai avvenuta, come tutti sanno. Ora gli autori ne menano vanto, si considerano i muckraker dell’epoca moderna; più modestamente l’imitatore della voce di Vendola forse pensa di essere un grande artista politico. Invece tutti loro hanno lavorato, forse senza saperlo, per sostenere la linea padronale, lo Squinzi pensiero.
Rimane in fondo una preoccupazione: come si forma un governo? Chi discute di programmi e persone? Chi sceglie chi? La telefonata tra Barca e Vendola è indicativa in proposito: c’è un intenso chiacchiericcio tra cento o mille persone; qui le scelte principali (e secondarie) sono discusse e messe a punto, pesate e sottoposte a svariati pareri, a incroci di veti, finché la lista non è definitiva e si va, in comitiva, al Quirinale.