Le piattaforme rappresentano, da qualche anno, dei potenti agenti di trasformazione sociale. Nate all’interno del mondo digitale, stanno uscendo velocemente da quel luogo. Già diversi autori hanno sostenuto che si sta configurando una vera e propria «economia delle piattaforme». Ma si potrebbe anche parlare di una «società delle piattaforme», poiché sono numerosi i loro effetti sul contesto culturale e sociale.
Il modo con cui interagiamo con gli altri viene, infatti, intensamente condizionato da tali piattaforme. È il caso pertanto di cercare di comprendere meglio la loro natura, facendo ricorso ad alcuni volumi usciti recentemente.

Circolazione fluidificata

Amazon, Apple, Google, Facebook, Tinder, PayPal, Uber, Trivago, Alibaba sono imprese che differiscono notevolmente, perché la loro attività si concentra su oggetti di diversa natura. Ma tali oggetti operano, di solito, attraverso un modello che rimane sostanzialmente lo stesso. Una piattaforma digitale li fa circolare e in questo modo viene generato valore economico. Il «lubrificante» che facilita tale circolazione è la relazione sociale esistente tra le persone. Piattaforme che mettono in collegamento individui che offrono qualcosa con altri che cercano proprio quel qualcosa sono sempre esistite nella storia umana. Ma i progressi odierni delle tecnologie digitali stanno consentendo a tali piattaforme di diventare sia molto popolari che assai profittevoli. Anche perché non è più necessario produrre oggetti, riempire magazzini e affrontare i rischi economici dell’invenduto. Semplicemente, si connettono delle persone e queste si preoccupano di fare tutto.
Se le piattaforme digitali hanno potuto svilupparsi, è perché le merci e i servizi si sono progressivamente smaterializzati. Il processo di digitalizzazione della società ha consentito questa smaterializzazione e ciò ha permesso la nascita di un fenomeno come le piattaforme. Che altro non sono che una sorta di «recinzione».

Stabiliscono i confini di un territorio e lo difendono con decisione, facendo entrare solamente chi ne ha il diritto, identificato con precisione e, a volte, anche costretto a sottostare a una qualche forma di pagamento. È il modello che Apple e Microsoft hanno lanciato anni fa, schema che, in seguito, si è rapidamente diffuso.

Il costo per l’accesso alle piattaforme, quando è presente, è contenuto e a volte persino gratuito. Perché quello che conta è che gli utenti entrino facilmente. Poi, una volta immessi, la strategia che viene attivata ha l’obiettivo di mantenerli all’interno, affinché acquistino il più possibile ciò che viene offerto. Da questo punto di vista, il riferimento teorico principale è naturalmente il saggio L’era dell’accesso (Mondadori) di Jeremy Rifkin, il quale già nel 2000 segnalava che le società avanzate stavano entrando in una nuova fase sociale caratterizzata da un modello economico basato sulla sostituzione della proprietà illimitata dei beni con l’acquisto della possibilità di utilizzare gli stessi beni per un tempo definito. E di raggiungerli in qualunque luogo o momento.

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Tra materia e immateriale

Volendo affrontare criticamente il tema delle piattaforme digitali, è utile ragionare prima di tutto sul concetto di dispositivo. Una piattaforma può essere considerata infatti come un dispositivo, sebbene questo concetto sia più ampio e possa comprendere anche oggetti di natura differente. Come ad esempio un semplice manufatto fisico (la moka per il caffè), un manufatto fisico dotato di un programma informatico (il navigatore satellitare) oppure uno strumento di tipo puramente immateriale, ma in grado comunque di produrre effetti materiali (le tasse).

Sul dispositivo ha riflettuto di recente Fulvio Carmagnola nel suo piccolo ma denso libro Dispositivo. Da Foucault al gadget (Mimesis, pp. 78, euro 7,90). L’autore ricostruisce l’evoluzione di questo concetto attraverso l’analisi delle idee sviluppate da giganti del pensiero come Foucault, Agamben, Deleuze, Lyotard e Lacan. Si concentra però soprattutto sul primo di tali pensatori, perché questi ha introdotto il concetto di dispositivo e ne ha definito le principali caratteristiche. Per Foucault il dispositivo è sostanzialmente una «tecnologia del potere», vale a dire una modalità attraverso la quale il potere si esercita. Il che comporta, come scrive Carmagnola, che il dispositivo non possa essere considerato uno strumento neutrale e che sia necessario ritenere che il soggetto venga «plasmato, prodotto, «oggettivato» o a sua volta «iscritto» dal dispositivo».

Vittime di un algoritmo

Va considerato però che per Carmagnola stesso, Foucault attribuiva al potere del dispositivo anche una forza di tipo produttivo, la quale non impedisce di fare, ma spinge piuttosto a fare. Stimola dunque la creatività umana. Insomma, come sosteneva Lacan, «anima» le persone.
Naturalmente, le piattaforme per funzionare al meglio hanno bisogno di alcuni particolari tipi di dispositivi. Ad esempio, per riuscire a fare entrare facilmente gli utenti al loro interno, devono rendere accessibili quelli digitali che servono per la connessione a Internet. Non a caso, di recente, lo smartphone R1 HD è stato messo in commercio a soli cinquanta dollari per gli utenti di Amazon Prime. In cambio, tali utenti pagano la tassa d’iscrizione a Amazon Prime e accettano di ricevere dei messaggi pubblicitari da Amazon ogni volta che sbloccano l’apparecchio.

Le piattaforme digitali sono evidentemente azionate da un software, il quale a sua volta si basa su un algoritmo. Nel volume The Black Box Society: The Secret Algorithms That Control Money and Information (Harvard University Press), il giurista Frank Pasquale ha cercato di analizzare gli effetti della crescente importanza rivestita nelle società contemporanee dagli algoritmi. Ha cioè messo in luce come decisioni anche importanti – che in passato venivano prese a partire da riflessioni sviluppate dagli esseri umani – siano oggi sempre più determinate da procedure informatiche di natura automatica. Procedure che – in quanto tali – sono rigide e dunque non sono in grado di adattarsi agli imprevisti, come fa abitualmente il cervello umano.
Per questo motivo, si ritiene che abbiano pesantemente contribuito a determinare la grave crisi finanziaria del 2008. Tali procedure influenzano le decisioni prese sia dalle istituzioni e dalle organizzazioni, sia dal singolo che ha la necessità di andare al ristorante o dal dentista.

Il vero problema però per Frank Pasquale è un altro: le procedure algoritmiche sono una «black box», non si presentano come trasparenti, perché noi non ne conosciamo la logica che le guida. Invocando il loro diritto alla privacy, infatti, aziende come Google, Facebook o Twitter raccolgono un’enorme quantità d’informazioni sui comportamenti delle persone nella loro vita privata, mentre gli individui, a loro volta, sanno ben poco di come le aziende utilizzino queste informazioni per operare una pressione sui provvedimenti che vengono attivati nella società. Le aziende sostengono che i loro algoritmi sono scientifici e neutrali, ma, dato che sono segreti, ciò è difficilmente verificabile.

Rimanere uguali a se stessi

Anche il sociologo Dominique Cardon ha provato di recente a interrogarsi sulla natura dell’algoritmo nel volume Che cosa sognano gli algoritmi. Le nostre vite al tempo dei big data (Mondadori Università, pp. 102, euro 10). La sua idea è che gli algoritmi, a differenza degli umani, sono stupidi e dunque non possono fare altro che riprodurre le differenze sociali e le discriminazioni esistenti nella società e generate anche dagli utenti del web con i loro comportamenti.

Avviene però qualcosa di più: dato che gli algoritmi lavorano solitamente sulle informazioni relative ai comportamenti passati delle persone, non solamente riproducono l’esistente, ma tendono a spingere la società verso una conferma dell’ordine vigente. Inducono cioè gli individui a riprodurre in continuazione loro stessi e le proprie azioni e riducono gli spazi esistenti per la libertà e la creatività. Sono dunque portatori di un vero e proprio progetto politico che tende ad accelerare la corsa della società verso l’individualismo e la competizione.