Con la new economy  degli anni ’90 sembrava emergere un modello di sviluppo capitalistico in cui la neutralità positiva del progresso tecnologico e la centralità della figura del genio imprenditoriale avrebbero costituito i cardini quasi istituzionali del sistema economico contemporaneo. Un capitalismo di «creazione costruttiva»,  in cui l’avvento e la diffusione di nuove tecnologie beneficerebbero il consumatore sovrano e premierebbero l’innovatore privato per la sua «fame e pazzia». Due figure sono tuttavia assenti da questo quadro: lo Statocome socializzatore dell’innovazione e il lavoratore soggetto a radicali trasformazioni del processo produttivo.

Lo Stato innovatore di Marianna Mazzucato è servito a dimostrare quale sia stato il ruolo del governo  Usa nel finanziare rischiosi progetti scientifici, supportandone la diffusione e l’applicazione alla produzione. Il successo economico di Apple viene smascherato e messo a confronto con la contradditoria situazione dell’economia statunitense: finanziariamente instabile, declinante nel settore manifatturiero, pervasa da acute diseguaglianze di reddito e di occupazione.  Mazzucato rompe la dimensione del determinismo tecnologico e ci invita a guardare alla natura socio-istituzionale e politica della tecnologia e della sua applicazione ai processi produttivi.

È in questo contesto che s’inserisce la discussione proposta dalla rivista Jacobin, recuperando la dimensione conflittuale del progresso tecnologico avanzata da Marx: una relazione sociale insita nel processo lavorativo. Vista in quest’ottica, la tecnologia rappresenta sì un’arma per la competizione capitalistica (à la Schumpeter), ma anche e soprattutto un implacabile grimaldello nel conflitto tra capitale e lavoro.

Complementare risulta essere la strategia politica per la gestione sistemica del cambiamento tecnologico. I tentativi  non sono mancati.

Nell’ottobre del 1963 il leader del Labour Party britannico Harold Wilson infiamma la platea della conferenza annuale di Scarborough, prospettando per il suo Paese un socialismo definito in termini di rivoluzione scientifica, la quale avrebbe tuttavia richiesto «cambiamenti radicali nelle attitudini economiche e sociali che permeano l’intero sistema della società». Un importante ma timido tentativo fu l’istituzione di un ministero per la Tecnologia, mantenuto dal 1964 al 1970 e diretto dal socialista Tony Benn.

Un esperimento meno noto fu quello del Progetto Cybersyn, direttamente finalizzato a realizzare un ambizioso programma politico nel Cile di Salvador Allende. Ideato nel 1972 per la gestione delle centinaia di imprese passate sotto il controllo statale, Cybersyn si presentava come un sistema tecnologico capace di migliorare la gestione coordinata dell’attività economica da parte del governo. Mentre forniva un accesso giornaliero ai dati sulla produzione e strumenti per la rielaborazione degli stessi in ottica di pianificazione futura, esso garantiva un incremento della partecipazione dei lavoratori e una cospicua autonomia da parte delle  imprese nei confronti del pianificatore centrale.

Jacobin ci invita  a resistere all’apolitico «determinismo dell’innovazione», che vede nella creazione e diffusione di nuove tecnologie un paradiso di prosperità condiviso da tutti. Il messaggio è esplicito: elaborare una strategia per cambiare radicalmente la struttura delle organizzazioni produttive, finalizzandole a principi di utilità collettiva.