L’accordo sul clima evita, al momento, il peggior scenario possibile, ma è al di sotto delle legittime aspettative di riuscire a contenere l’aumento della temperatura (rispetto all’epoca preindustriale) entro il limite di 1.5 C (come era stato prospettato nel vertice del 2015 a Parigi). Ciò avrebbe permesso di rendere l’impatto attuale del cambiamento climatico (già molto pesante) reversibile. L’asticella si è spostata, invece, sull’1.9 C, obiettivo che, secondo uno studio dell’Università di Melbourne, ha più del 50% di possibilità di essere raggiunto. Si può vedere il bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno, ma è innegabile che l’umanità ha compiuto un altro passo verso la deriva più temibile: la strada dell’adattamento perenne, che è un circuito vizioso, alle condizioni oggettive della sua esistenza.

Queste condizioni non sono la “natura” e non sono la “realtà”. Sono ciò che resta della realtà se togliamo il farne “esperienza”: sentirla, patirla, scoprirla, intuirla,“gustarla”. Esistiamo veramente se non ci adattiamo al mondo esterno: se impariamo a rispettarlo per conoscerlo, esperirlo. Questa è una tendenza naturale, una qualità intrinseca dell’essere umano. Se non rispettiamo la realtà, ci andiamo a sbattere sopra e, sbattendoci, ci troviamo nello stato della pura materialità che è, paradossalmente, immaterialità: l’insensato, la morte come de-significazione assoluta della vita (l’impatto sull’asfalto cadendo dal decimo piano). Oppure, ci adattiamo alla “vendetta” della realtà e della natura, quando la mancanza di rispetto le rende pericolose, cercando di restringere l’area della nostra esperienza per non essere spazzati via. Ci comportiamo come talpe che si inoltrano sempre di più nei loro tunnel per non aprire gli occhi e sentirsi smarrite.

Fino a che punto è reversibile l’attuale stagnazione della sensuale, coinvolgente, erotica relazione con il mondo che ha le sue radici nella sempre più grave difficoltà di rispettare la parità necessaria dei soggetti desideranti in tutte le relazioni di scambio, nell’incapacità (al di là delle forme, nate stantie, del politically correct) di rispettare il desiderio dell’altro come condizione del nostro essere “vivi” -intensi, profondi, complessi- e non ridursi in esseri piatti, “viventi”? Se la tecnica è diventata tecno-ideologia e tecnocrazia, pensiero cieco che domina contrastato (ma per quanto ancora?) dappertutto, è perché alla frustrazione cronica dell’Eros -la scarsezza di un reale godimento sessuale, culturale, intellettuale- si cerca di far fronte con dispositivi artificiali che agiscono come droghe e fanno leva sul bisogno della sopravvivenza e su quello, strettamente correlato, di “sicurezza”. Il calcolo si è impadronito della scienza, di cui era fedele servitore, e produce sembianti, autoinganni concreti.

Nessuno mette in discussione che la tecnica sia un formidabile assistente della nostra vita, ma se l’assistenza si sostituisce alla cura (l’amore che protegge e fa crescere ogni cosa), se il meccanico decide i nostri viaggi, le persone che frequentiamo e le nostre emozioni, qualche dubbio che non siamo sulla strada giusta lo dobbiamo pure avere. Lo sviluppo tecnologico raggiunto dalla nostra civiltà è imponente. E il meglio/peggio deve ancora venire. Ma la realtà in cui viviamo è di una precarietà/instabilità stupefacente. Se è il computer dell’aereo a decidere dove andiamo, è meglio che non ci imbarchiamo. Rischiamo di rimanere intrappolati per sempre in una prospettiva in cui la soluzione adattativa resa necessaria nel presente (la tecnica che argina l’emergenza) diventa necessità permanente del futuro. Si può e si deve resistere alla convivenza con i disastri climatici e le pandemie. All’adattamento al “meno peggio” che è assuefazione al sempre peggio. La tecnica torni al servizio dell’esperienza, del desiderio. Ritrovi la via della prevenzione che è indissociabile dalla scoperta.