Pare che nell’antica Babilonia i soldati avessero la licenza di violentare le donne come premio per il loro valore in battaglia e per infliggere la vergogna ai perdenti. Sin dall’antichità, insomma, gli agenti della guerra usano le donne per esercitare una violenza assai più profonda di quella che le armi possano infliggere, un disonore sociale e collettivo in cui i corpi femminili diventano meri strumenti di gestione della rivalità in guerra.
Lo stupro non è, infatti, solo un penoso accidente nel contesto caotico di un conflitto. Esso rappresenta una vera e propria tattica bellica, cui i soldati vengono preparati e istruiti per fiaccare il morale dell’avversario o ottenere vantaggi strategici e politici. Se è vero che si tratta di una pratica antica, tuttavia, la sua persistente attualità è quanto mai allarmante.

Da questo punto di vista, il conflitto siriano iniziato nel 2011 con le sue ibridazioni e propaggini irachene, si presenta come un vero e proprio laboratorio dell’orrore, in cui i corpi femminili sono stati violati e strumentalizzati per vari fini strategici. Tra il 2014 e il 2016 gli occhi del mondo si sono concentrati sugli stupri delle donne yazide in Iraq da parte dello ‘Stato Islamico’ dopo la prese di Mosul, punite o semplicemente usate come oggetto di sfogo del potere ‘biopolitico’ che si autoglorifica nella sua mascolinità proprio attraverso l’umiliazione e la schiavizzazione (moralmente accettata e codificata dallo ‘Stato Islamico’) delle donne del nemico. Lo stupro sistematico delle donne yazide, tuttavia, rappresenta soltanto un aspetto di un problema molto più ampio nei conflitti in Siria e Iraq. Un rapporto delle Nazioni Unite, uscito nel marzo 2018, basato su 450 interviste, ha aggiunto un altro tassello alla documentazione di migliaia di casi di violenza sessuale che dal 2011 al 2017 praticamente tutti gli attori del conflitto siriano hanno perpetrato (oltre all’uccisione per lapidazione di donne accusate di adulterio, assieme anche a diversi omosessuali). Lo stupro di donne – ma anche di uomini e bambini, seppure in misura minore – è stato utilizzato sin dalle prime proteste anche dalle truppe di Bashar al-Asad, dalle sue mukhabarat i celebri ‘servizi d’intelligence’ del regime damasceno e dai gruppi armati alleati.

Per esempio, nella provincia meridionale di Daraa’, la città dove scoppiarono le prime proteste anti-regime su larga scala nel 2011, i soldati e i servizi d’intelligence di Damasco hanno portato avanti una vera e propria campagna di stupro sistematico con il fine di fiaccare e coprire di disonore una popolazione considerata ‘ribelle’.

Allo stesso modo, le forze lealiste hanno fatto ricorso allo stupro in città e villaggi controllati dai ribelli in vari momenti del conflitto, come strumento di punizione sociale e collettiva. Alcuni casi documentati di violenza sessuale sono di un cinismo sconcertante, seppur ben incarnato nella dottrina e nelle tecniche del terrore con cui il regime degli Asad ha tenuto in scacco la popolazione per diversi decenni. All’inizio del 2012, per esempio, il quotidiano libanese l’Orient Le Jour, riportava di un caso a Hama, storica città ribelle siriana, in cui alcuni membri delle mukhabarat di Asad avevano stuprato una donna, uccidendola infine infilandole un piccolo ratto nella vagina.

L’arroganza del potere si abbatte sul corpo delle donne con un terrore sprezzante e intollerabile. Tuttavia, questa violenza risponde a logiche ben precise del potere.
Non solo, il potere penetra nello spazio intimo della donna per entrare in realtà a gamba tesa nello spazio privato della famiglia, un’istituzione in cui si racchiude l’onore agli occhi della società patriarcale e maschile in cui si inserisce.
Violare la donna, significa in sostanza disonorare l’uomo, il pater familias: è il modo attraverso cui il potere dello Stato riafferma se stesso sull’individuo, prettamente maschile, e sulla sua iniziativa personale e disallineata rispetto allo Stato.

Se gli uomini rappresentano i ‘corpi attivi’ della guerra – una prerogativa maschile nelle società patriarcali – le donne, per quanto escluse dal possibile esercizio dell’‘arte bellica’, sono reintegrate nella dinamica del conflitto in quanto ‘corpi passivi’. La passività, ovviamente, non è oggettiva ma attribuita socialmente.
Non è cioè solo data dal fatto che è sul corpo delle donne che l’uomo in armi sfoga la sua arroganza, ma perché – nel farlo – persegue l’obiettivo di fiaccare psicologicamente il suo rivale maschile. Nella dimensione sociale della guerra, il disonorato è, infatti, sempre e soltanto l’uomo. Il corpo della donna, in sostanza, è solo il mero strumento attraverso cui il soldato infligge il disonore ma non il suo oggetto.