«Finché la costituzione rimarrà quella che gli americani hanno dato a un paese sconfitto, il Giappone sarà sempre un paese perdente».
Senzo Honobono è solo un personaggio di fantasia – protagonista di un fumetto – ma forse meglio di ogni altro ha saputo farsi portavoce del blocco conservatore giapponese.

La costituzione così com’è oggi, non va più. Va cambiata perché, sostengono alcuni leader del partito, non garantisce la sicurezza contro minacce esterne e interne.

La costituzione è alla base dell’ordinamento legislativo di un paese, si legge in un altro dialogo del fumetto. Fosse stato una persona in carne e ossa, Senzo avrebbe senz’altro gioito quando, il 19 settembre 2015, la Camera alta ha approvato un pacchetto di provvedimenti che permetterà, tra l’altro, alle forze miliari giapponesi di intervenire in missioni di peacekeeping sotto l’egida Onu, di essere inviate all’estero a protezione di cittadini giapponesi coinvolti in situazioni di crisi, o di truppe amiche oggetto di un attacco da parte di un paese terzo, anche se si tratta solo di una minaccia indiretta al Giappone. La legge sarebbe entrata in vigore qualche mese più tardi, il 29 marzo 2016.

Per la prima volta dal 1945, i militari giapponesi potranno «sparare il primo colpo» in situazioni di conflitto o pseudo tale. L’idea di fondo è che i militari nipponici assumano un ruolo più attivo nelle missioni militari multilaterali e sullo scacchiere strategico internazionale.

Per gran parte di questi ultimi settant’anni, senza lo status di un esercito a tutti gli effetti, le Forze di autodifesa giapponesi hanno svolto principalmente funzioni umanitarie: portare soccorso alla popolazione giapponese in caso di catastrofi naturali come terremoti, inondazioni ed eruzioni vulcaniche.

Nei primi anni ’90, la svolta. I militari giapponesi vengono mandati all’estero con mansioni di sminamento, peacekeeping e supporto logistico alle missioni Nato. Golfo persico, Cambogia, Mozambico; e poi Afghanistan, Iraq e il golfo di Aden per le missioni anti pirateria.

Dopo lo strappo del 2004, quando il governo Koizumi fa approvare una legge per l’invio di quasi 10mila militari a sostegno delle truppe americane in Iraq a «sostegno del reintegro umanitario» nel paese affacciato sul Golfo persico, nel 2009, l’esercito giapponese si dota anche della prima base militare all’estero. Ciononostante, il bilancio finale è di zero uccisioni, un record straordinario per un esercito.

«Alcuni in Giappone vedono una contraddizione di fondo in tutto ciò», spiega al manifesto Giorgio Colombo, professore associato di diritto comparato presso l’Università di Nagoya, una delle più rinomate università pubbliche del Paese arcipelago. «Esiste una presenza militare che sulla carta fatica ad essere giustificata». L’ipotesi di riforma dell’articolo 9 della costituzione ha origine proprio in questa disfunzione.

«Con una riforma della costituzione – aggiunge Colombo – questa anomalia verrebbe sanata».
Per molti osservatori le leggi sull’esercito del 2015 sono state un passo decisivo verso una prossima riforma della costituzione postbellica, che all’articolo 9 sancisce la rinuncia eterna del Giappone alla guerra.

Già nel 2014, con una decisione formale del governo, l’articolo era stato reinterpretato in modo da riconoscere il diritto del Giappone all’autodifesa collettiva sancito dalla carta delle Nazioni Unite. «Una scorciatoia» incostituzionale, dicono gli esperti, per accelerare le modifiche all’atteggiamento strategico del paese.

Dal 1947, anno di entrata in vigore dell’attuale costituzione, il dettato costituzionale originario non è mai stato cambiato.
Emendare la costituzione è infatti un procedimento lungo e articolato per cui è necessario un voto a maggioranza dei 2/3 in entrambe le camere e l’indizione di un referendum popolare confermativo.

Shinzo Abe ripone molta fiducia nelle prossime elezioni per la Camera alta del prossimo luglio: potrebbero garantirgli la maggioranza parlamentare necessaria per procedere alla riforma costituzionale.

Questa è un vecchio pallino non solo suo, ma anche di suo nonno, Nobusuke Kishi – criminale di guerra riabilitato diventato primo ministro del Giappone tra 1957 e 1958 e nel 1960. Era il 1958 quando in un’intervista alla tv americana, Kishi ammise che era arrivato il momento per rivedere l’articolo 9. L’occupazione americana del Giappone era finita da appena sei anni.

Alcuni segnali, in arrivo anche da Washington, favorevole a un Giappone più attivo sul panorama internazionale, dicono che quel momento potrebbe essere finalmente arrivato.

«Tradizionalmente, la bassa affluenza alle urne favorisce il Jiminto», spiega ancora Colombo. Ma in caso si arrivasse al referendum le cose potrebbero andare in modo diverso. Sulla riforma dell’articolo 9, il governo sconta l’opposizione di gran parte della società civile.

Recenti sondaggi dicono infatti che più del 50 per cento dei giapponesi è contrario alla fine del pacifismo costituzionale del proprio paese. Lo scorso anno, decine di migliaia di persone sono scese nelle piazze del paese come non succedeva da decenni.

Al centro della protesta studenti universitari, ma anche avvocati e costituzionalisti. «Una più ampia base elettorale potrebbe avere effetti imprevedibili», conclude lo studioso.