Che tocchi proprio a Microsoft, l’azienda di Bill Gates che a metà degli anni 70 decretò la privatizzazione del software con una storica lettera che annunciava la fine del freesoft, convertirsi agli open data dimostra come il mercato di Big tech sia oggi in frenetica evoluzione e come proprio i grandi gruppi digitali si stiano riposizionando in vista di un’ennesima capriola strategica.

Nonostante le resistenze e le timidezze di istituzioni e forze politiche, che non hanno ritenuto certo di disturbare il manovratore della Silicon Valley, una certa pressione sale dalla società.

La pandemia ha reso evidente il nesso fra dati e interesse pubblico, ancora più spietatamente, fra accesso ai data base e sicurezza personale.

Negli Stati uniti decine di città, interi stati, molte università, stanno rivendicando un uso pubblico dei social per poter mappare i comportamenti e i sintomi nel contagio.

Solo la rete, con la sua pervasività, la sua viralità, la sua granularità, e soprattutto la sua imponente capacità di raccogliere informazioni involontarie e istintive di circa 4 miliardi di utenti, ha esattamente i numeri e la pervasività della pandemia: coronavirus e social sono oggi le due vere super potenze che si confrontano sul pianeta.

Presentano lo stesso linguaggio e un’identica dinamica. Senza l’uso di Internet non si può contenere e soffocare il coronavirus. Non c’è app che tenga.

Per questo sembra che la Silicon Valley voglia giocare d’anticipo. Prevenendo limiti e vincoli che potrebbero essere indotti dalla disperazione.

Dopo aver inibito ogni velleità di governi e istituzioni internazionali nel rivendicare l’utilizzo dei dati sensibili che pur di matrice pubblica rimangono saldamente patrimoni privati, ora i grandi Over The Top sembrano svoltare verso una strategia sociale. Sembra.

L’imperturbabile Mark Zuckerberg, reduce da inchieste e accuse in tutti i continenti per inquinamento dell’ecosistema digitale ,si permette di dichiarare al Washington Post che “Il mondo ha affrontato pandemie in precedenza, ma questa volta abbiamo una nuova superpotenza: la capacità di raccogliere e condividere i dati per sempre”. Abbiamo chi?, verrebbe da chiedere visto che al momento nulla è cambiato nei comportamenti concreti.

Google e facebook si sono infatti limitati a consegnare report parziali di dati largamente insignificanti, senza aver realmente arricchito le informazioni già note. Come risulta anche nel plotone degli esperti della ministra dell’Innovazione Pisano, nonostante alcuni consulenti abbiano accreditato relazioni e contatti privilegiati.

Qualcosa di più sembra essere uscito dai loro forzieri negli Usa, dopo robuste sollecitazioni della Casa Bianca. In alcune città sono state elaborate mappe dinamiche del contagio sulla base di ricerche semantiche su Google integrate dalle conversazioni su facebook. A conferma che i dati delle piattaforme sono indispensabili per contrastare l’infezione.

La mossa del cavallo, però, viene proprio da Microsoft, che annuncia entro il prossimo anno una ventina di centri per la condivisione delle informazioni in suo possesso. Non solo ma il presidente di Microsoft, Brad Smith, novello Spartaco on line, denuncia addirittura che tutti i dati del mondo, proprio tutti, sono controllati da meno di 100 società: 6 di queste ne controllano almeno il 60%.

Un monopolio assolutamente inedito nella storia umana. Da questa morsa, dice Smith, Microsoft vuole uscire, promuovendo una condivisione strutturale dei dati con le comunità che li producono.

Sarebbe come se lo Zar avesse scatenato la presa del palazzo d’inverno.

L’unico precedente di una svolta cosi radicale nel mercato tecnologico risale ad almeno 30 anni fa, quando IBM abbandonò il suo core business dei computer per abbracciare il mercato open source di Linux, cambiando il volto della storica Big Blue.

Come allora, non fu certo un moto di generosità a muovere il gigante americano, quanto di un’accorta mossa per insediarsi nel segmento più redditizio del mercato, così ora Microsoft, il cui fatturato è solo marginalmente legato alla gestione del big data, presupponendo come maturo un cambio di clima nei confronti della proprietà dei dati, mira a diventare la grande software house dei sistemi aperti.

In sostanza, la partita che si sta giocando all’ombra della pandemia vede da una parte i titolari dei grandi data base limitare le concessioni e cercare di guadagnarsi sempre più spazio nel ruolo di service provider delle amministrazioni nazionali, sfruttando la cieca corsa alle app, mentre i grandi centri del calcolo, di cui Microsoft è capofila, rafforzerebbero il loro dominio sul mercato globale attraverso il rigido controllo degli algoritmi.

E’ questa la fase due del mercato digitale: impedire un nuovo scontro fra la rendita del big data e la speculazione del software, mentre, come spiegava nel suo ultimo saggio sul valore Mariana Mazzucato, si tratta di spingere i poteri pubblici a distinguere fra chi crea valore e chi semplicemente si limita ad estrarlo, mettendo proprio una bussola nazionale al centro di questa scena, e imboccando apertamente la strada che porta a considerare beni comuni, ossia fattori di produzione competitiva e non privatizzabile, sia i dati che gli algoritmi in vista di una nuova espansione sociale dei sistemi intelligenti nella rincorsa al virus.