Il 10 aprile le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si esprimeranno sui criteri di quantificazione dell’assegno di divorzio e in particolare su quel parametro del «tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio», di cui la Prima Sezione Civile della Cassazione con la sentenza n. 11504 del 2017 ha messo in dubbio attualità e fondatezza dopo oltre venticinque anni di giurisprudenza costante. In tal modo i giudici della Prima Sezione hanno inteso por fine alla cosiddetta solidarietà post-coniugale, argomento con il quale si è giustificato sin qui il mantenimento dell’ex coniuge senza limiti di tempo, con risvolti che in alcuni casi hanno anche potuto sollevare qualche perplessità.

Sennonché la strada imboccata dalla corte è ben peggiore del male cui intendeva rimediare. Non solo perché si pretende, in virtù di un’interpretazione letterale (e pedissequa) della legge sul divorzio, di scindere il giudizio sul diritto all’assegno dal giudizio sulla sua determinazione, come se la sussistenza del diritto ad essere mantenuto dall’ex-coniuge non dipendesse direttamente dalla definizione dello standard di vita che il mantenimento deve soddisfare. E non solo perché il principio di diritto che ribalta un orientamento consolidato viene espresso in occasione di un caso del tutto peculiare, nel quale la ex moglie che reclama l’assegno è un’imprenditrice benestante che nulla ha preteso in sede di separazione. Ciò che veramente colpisce e sgomenta è l’adozione incondizionata della razionalità neoliberale, in forza della quale si afferma che il criterio cardine nella disciplina dei rapporti post divorzio è l’autoresponsabilità economica, sintagma che tanto da vicino richiama «l’individuo imprenditore di se stesso» di Foucault.

In virtù della stessa logica, gli ex-coniugi vanno considerati come singoli senza che in alcun modo riverberi il precedente ménage comune e il matrimonio non è più la fonte di una sistemazione economica per la vita, ma invece un atto di libertà. Un atto di libertà iniziale che deve esitare poi in una condizione – possibilmente permanente – di autoresponsabilità economica.

Nel mezzo fra il prima e il poi un regime giuridico matrimoniale che è per contro ancora informato alla solidarietà familiare, cosicché, in costanza di matrimonio, il lavoro di cura è dovuto in quanto forma di contribuzione al ménage familiare, senza che sia possibile negoziare una qualche forma di retribuzione, neppure per il surplus prestato in rapporto al contributo dell’altro coniuge. Sempre la solidarietà familiare impedisce che le rinunce alla carriera professionale fatte per dedicarsi ai figli, ai genitori anziani, alla famiglia siano direttamente remunerate. È stata opinione comune sinora che una remunerazione fosse affidata al parametro del mantenimento del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, da garantirsi anche dopo il divorzio.

La prima sezione civile della Cassazione ci ha detto nel maggio scorso che non è più così, che questo criterio non è più adeguato ai tempi, che è giunto il momento dell’emancipazione. La Cassazione usa un linguaggio neutro, ma è chiaro che si riferisce all’emancipazione economica delle donne. L’argomento dell’emancipazione femminile è stato spesso usato per promuovere riforme epocali del regime giuridico del divorzio in altri paesi. In alcuni casi ha effettivamente corrisposto al raggiungimento dell’indipendenza economica delle donne. In altri casi ha condotto alte percentuali di donne divorziate sotto la soglia di povertà. Inutile dire che gli effetti positivi si sono avuti solo in paesi, come la Svezia, dotati di formidabili sistemi di welfare pubblico. In paesi come gli Stati Uniti l’alleggerimento degli oneri di mantenimento post-divorzile, a fronte di un sistema di welfare molto marginale, non ha fatto altro che rimpinguare la schiera delle donne povere.

Nell’Europa meridionale, in paesi come l’Italia o la Grecia, dove l’assistenza agli anziani e alle nuove generazioni è per lo più a carico delle famiglie, fissare col divorzio la fine dei rapporti di solidarietà familiare significa negare a quei familiari, mogli e madri nella stragrande maggioranza dei casi, il riconoscimento del valore prodotto dal lavoro riproduttivo.

La logica del tenore di vita goduto in costanza in matrimonio è una logica perequativa: mira a redistribuire la ricchezza comune creata durante il matrimonio a prescindere dalla posizione che si ricopre nel mercato. La logica dell’autoresponsabilità economica è puramente ideologica: non produce alcun effetto emancipatorio concreto e lascia irrisolto il problema del valore sociale del lavoro di cura.

Ovviamente la soluzione potrebbe essere trovata in qualche forma di sostegno al reddito. In assenza di misure di welfare pubblico, la disciplina del divorzio resta essenziale: come dicevano due noti realisti americani, i coniugi negoziano in the shadow of the law.
Più il regime legale del divorzio è sperequato, maggiore è la disparità di potere nei rapporti fra i coniugi. Già oggi più del 25% delle donne subisce violenza psicologica o economica dal partner. Se nelle Sezioni Unite dovesse prevalere la razionalità neoliberale aumenterà irrimediabilmente la percentuale delle donne soggette e violenze e ricatti in famiglia.