Cosa fai quando a 45 anni ti ritrovi ad essere Sufjan Stevens e ti sei ormai aggiudicato a pieno titolo il primato di musicista popolare bianco più ispirato di un paese prossimamente ex-egemone? Cosa fai dopo aver pubblicato dei capolavori a inizio carriera – Michigan, Illinois, Seven Swans – che sono un sincero quanto esitante atto d’amore per quello stesso paese e nel Dio in cui dice di credere, album che dovevano essere i primi di un affresco colossale lungo cinquanta stati, annunciato tra mille fanfare e mai portato a termine? E cosa fai, infine, dopo aver ribadito la tua eccellenza pubblicando nel 2015 uno dei dischi più struggenti, ombelicali e lirici dell’ultimo decennio, una straziante elegia folk intitolata Carrie &Lowell?

SEMPLICE: ti chiudi in casa. Non la tua casa di New York, dove hai vissuto vent’anni e dove hai il tuo studio, anche perché invasa dai topi. Ma in campagna, dove molti artisti vanno a spegnersi creativamente credendo di ricaricarsi psicologicamente e dove anche tu hai deciso di rifugiarti e giocare a far l’agricoltore. E ti metti a comporre sul computer portatile un album che è in buona parte l’esatto contrario dei precedenti: un album quasi elettro-pop, dove il cordone ombelicale con te stesso e la tua fede – prima ancora che con tua madre – è definitivamente reciso. Un album dove il ritmo, in più punti un pelo isterico, oscilla fra la ballabilità e qualcosa di più sinistro, dove gli strumenti acustici sono banditi, come anche certe (pedestri) emulazioni del minimalismo di Reich, Glass & Co. degli esordi.
E dove i temi affrontati dai testi sono finalmente, se non universali, legati alla carne viva della politica e non solo al sospiro del privato. Anche perché, nel frattempo, quei cinquanta stati per i quali volevi comporre la tua abbandonata elegia nazionale, sono finiti nella Beast, la limousine presidenziale di Donald «Duck» Trump, che gli sta dando uno strappo nel viaggio di solo ritorno verso la propria genesi: segregata, violenta, armata fino ai bianchissimi denti.

IL RISULTATO di tutto questo travaglio è The Ascension, un album orgogliosamente diverso dal comunque inarrivabile predecessore, che si confronta con la storia ancor prima che la cronaca. Un disco laico – I wanna be my own believer/I wanna be my own redeemer canta l’apostata Stevens in Run Away With Me – dove il delizioso elettropop di Video Game riporta quasi agli anni Ottanta per parlare della stupidità intrinseca dei media «sociali.» Che va crescendo in intensità e bellezza proprio man mano che abbandona i temi alti del passato, dove la banalità altrettanto intrinseca del rimare pop la fa da padrone, come in Tell Me You Love Me. O come in Die Happy, carezzevole mantra che sfocia in una promessa mantenuta. Voglio morire felice. E come dargli torto. Ativan non è una pseudo-divinità new age ma uno psicofarmaco prescritto per gli attacchi di panico, una specie di Xanax.

IL TEMA della perdita – vera o presunta – della fede torna in Ursa Major. Da qui in poi comincia la vera e propria ascensione, pasquale o meno, dove il lirismo torna prepotente in mezzo ai campionamenti scheggiati: Landslide parla di un amore divino che si sospetta umano, troppo umano; Goodbye To All That canta la cesura col passato e irride la mitologia del suicidio r’n’r: «ora che è troppo tardi per esser morto giovane sono contento di essere ancora vivo».
Ma e solo nella triade di chiusura che l’aedo ormai più importante della terra che chiamiamo impropriamente America raggiunge l’empireo. Il magnifico singolo Sugar il primo a rimandare apertamente alle struggenti atmosfere di Carrie & Lowell, come anche The Ascension, che farebbe commuovere anche un bot. L’altro singolo, America segna una resa dei conti di dodici minuti con dio e patria: Ho baciato le tue labbra come un Giuda in calore/Non fare a me quello che hai fatto all’America. Coda di quattro minuti. Sipario.