Coltivare in città è strumento (politico) per mettere in discussione i nostri stili di vita, veicolando forme di produzione e di consumo più virtuose. Fare l’orto in città vuol dire reclamare il diritto alla qualità dell’aria, ad una alimentazione sana e locale.

Ma anche al ruolo attivo del cittadino nello spazio urbano, alla sua capacità d’interagire con l’ambiente e di farlo attraverso un’attiva (e quanto mai sana) interazione sociale.

Non si tratta (solo) dell’ultima moda del momento, ma della richiesta di un nuovo modo di abitare i contesti urbani. Parliamo di un atto di contestazione ideologica rispetto all’attuale modello di città, ai suoi eccessi e alle sue storture.

Siamo spesso indotti a pensare che fare l’orto in città sia un passatempo, praticato dal pensionato o dal fanatico dell’ecologia. Un atteggiamento che ne sottovaluta la portata politica, sociale e soprattutto economica.

L’agricoltura urbana è un fenomeno complesso ed eterogeneo, di portata mondiale, solo apparentemente in antitesi alle attività propriamente urbane. Nelle aree urbane del sud del mondo l’orto urbano è parte integrante del paesaggio. Nel panorama, cosiddetto, occidentale l’agricoltura urbana può rappresentare una solida realtà sociale ed economica.

Secondo i dati della Fao, nelle metropoli africane sub-sahariane almeno un quarto della produzione alimentare proviene dall’agricoltura urbana. Nella città di Montréal (Canada) il fenomeno è talmente rilevante che l’Università locale ha istituito un laboratorio di ricerca e un corso estivo. A Bruxelles, all’ombra delle sedi che ospitano le Istituzioni europee, l’agricoltura urbana rappresenta un vero e proprio indotto economico che conta 500 contadini urbani e circa 4 mila posti di lavoro, se fra questi includiamo il campo dell’educazione ambientale e dell’accompagnamento alla creazione di nuovi orti urbani.

Nei contesti toccati da conflitti armati e da crisi economiche, l’orto rappresenta l’unico mezzo di sostentamento. Senza voler andare a cercare facili esempi nei paesi cosiddetti in via di sviluppo, o nel revocare i remoti orti di guerra, più recentemente nella città di Detroit (Stati uniti) l’orto urbano ha garantito il fabbisogno alimentare a quanti avevano perso il posto di lavoro a seguito della crisi dell’indotto automobilistico.

Coltivando il proprio fabbisogno alimentare (o parte di esso), un contesto urbano sviluppa una maggiore autonomia e promuove forme d’economia più virtuose e rispettose dell’ambiente. Ad essere coltivati sono i naturali rapporti umani e il sentimento d’appartenenza di una comunità al proprio territorio. Il cittadino urbano torna così a padroneggiare conoscenze semplici quanto ancestrali, come la stagionalità delle verdure, e assaporare la qualità del cibo di prossimità, con un occhio attento alla (giusta) retribuzione del contadino.

Se diamo per buone le previsioni che vedono le nostre società, nei prossimi decenni, come prevalentemente urbane, allora dobbiamo dare maggiore importanza alla necessità di rendere le metropoli capaci di soddisfare parte del proprio fabbisogno alimentare, riconoscendo il valore della pratica agricola urbana come strumento di cittadinanza attiva.

Non è forse un caso se nelle aree rurali la rivoluzione del biologico (in tutte le sue forme), abbia fra i suoi protagonisti i cittadini urbani. Nuovi contadini, desiderosi di sperimentare pratiche agricole più rispettose dell’ambiente, che hanno trovato negli orti urbani una particolare forma di praticantato e nell’humus culturale della città la legittimità (ideologico-politica) per diffondere modelli alternativi di fare agricoltura.