Si fa sempre più teso il rapporto tra Unione europea e Ungheria, Polonia e repubblica Ceca, tre dei quattro Paesi che compongono il gruppo di Visegrad. Le politiche contro i migranti, il rifiuto di accogliere profughi ma, soprattutto, le decisioni sempre più autoritarie assunte dai governi di Budapest e Varsavia in particolare, preoccupano i vertici delle istituzioni europee che reagiscono nell’unico modo che hanno a disposizione: aprendo procedure di infrazione. Ultime quelle avviate contro l’Ungheria per due leggi fortemente volute dal premier Viktor Orbán come quella contro le Ong e quella sull’istruzione superiore. Ma valga anche l’allarme lanciato dal parlamento europeo sulle nuove norme che in Polonia rischiano di sottomettere la magistratura al potere politico.
Ieri sono scaduti i termini entro i quali tutti e tre i paesi avrebbero dovuto replicare alla procedura aperta nei loro confronti il 14 giugno scorso dalla Commissione europea per non aver rispettato il piano di ricollocamenti dei profughi da Italia e Grecia. In due anni, da quando il programma è stato avviato, Ungheria e Polonia non ne hanno accolto neanche uno, mentre appena 12 sono riusciti ad arrivare nella repubblica Ceca .

Fino a ieri sera, però, da Varsavia non era arrivata nessuna risposta mentre Budapest e Praga hanno replicato ai rilievi del presidente della Commissione Jean Claude Juncker attaccando. Il governo ceco, in particolare, si è giustificato accusando l’Italia di non aver consentito a propri funzionari di effettuare i controlli di sicurezza sui dieci profughi individuati per il trasferimento. Secondo l’agenzia di stampa ceca Ctk, che nei giorni scorsi ha citato fonti governative, Roma non avrebbe neanche risposto alle richieste di Praga, rendendo così impossibile effettuare l’operazione. Le medesime accuse sarebbero rivolte anche alla Grecia.

Ricollocamenti a parte, è evidente che Praga gradisce poco la presenza di migranti tra i propri confini. Come dimostra anche l’emendamento firmato proprio ieri dal presidente Milos Zeman che introduce regole più severe per limitare l’accesso nel Paese dei migranti economici, e contro il quale le opposizioni non escludono di fare ricorso alla Corte costituzionale. Secondo i critici, infatti, le nuove norme non solo contrasterebbero con gli impegni internazionali assunti dal Paese, ma rischiano di danneggiare anche l’immigrazione regolare.

Quello dei migranti è però solo uno dei problemi. A Bruxelles guardano infatti con sempre maggiore preoccupazione alla svolte autoritarie in corso da tempo in Polonia e Ungheria. Due giorni fa sempre la Commissione Ue ha avviato un’altra procedura di infrazione nei confronti dell’Ungheria per la legge contro le Ong che ricevono finanziamenti dall’estero. Il provvedimento colpirebbe in particolare le organizzazioni di George Soros, il finanziere americano, ma di origine ungherese, che Orbán accusa di voler far arrivare in Europa milioni di migranti musulmani. Per questo il premier nazionalconservatore ha scatenato una violenta campagna fatta di enormi cartelloni con il viso del finanziere e la scritta: «Non permettere a Soros di ridere per ultimo». Soros è ebreo, e la campagna ha allarmato la comunità ebraica ungherese che ha bollato l’iniziativa come «antisemita». Altra procedura di in frazione anche per la legge sull’istruzione superiore che vieta alle università straniere di operare nel paese se non rispettano determinate condizioni. Anche in questo caso nel mirino di Orbán c’è Soros e in particolare la Central european university da lui fondata.

Infine la Polonia. Il parlamento sta discutendo una riforma giudiziaria definita dalle opposizioni come un «colpo di stato», perché permetterebbe al partito di governo PiS di nominare i giudici della Corte costituzionale e metterebbe in pericolo l’indipendenza della magistratura. Il leader del gruppo Alde al parlamento europeo, Guy Verhofstadt, ha chiesto ieri una riunione della Commissione Libertà e diritti civili per discutere la situazione polacca. «Stiamo assistendo – ha spiegato – all’abolizione dello Stato di diritto».