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La Superiora anti-tratta: «Il governo non sta aiutando le donne»

La Superiora anti-tratta: «Il governo non sta aiutando le donne»Eugenia Bonetti

Intervista a suor Eugenia Bonetti «Le ragazze hanno bisogno di tempo e di tornare in patria in dignità. Così sono si aiutano»

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 11 febbraio 2017

«Le donne migranti vittima di tratta hanno bisogno di tempo per ricostruire un diverso cammino della loro vita e non possono essere rimpatriate in Libia o in Nigeria in tutta fretta, perché verrebbero ritrafficate. Hanno bisogno di progetti per un ritorno in dignità». Suor Eugenia Bonetti spiega così perché non vede di buon occhio gli ultimi provvedimenti del governo Gentiloni sull’immigrazione.

Lei conosce bene di cosa sta parlando, ha vissuto 24 anni in Kenya e ora oltre a presiedere, dal 2012, l’associazione SlavesNoMore con una rete di comunità in tutta Italia contro la schiavitù lavorativa e sessuale delle donne vittime di traffico di esseri umani, coordina il servizio anti-tratta dell’Usmi, l’Unione delle superiori maggiori italiane, coordinamento delle missionarie di 70 diverse congregazioni cattoliche. È proprio lei ad aver ottenuto da papa Francesco l’istituzione della Giornata contro la tratta per la festa di S. Bakhita, una santa schiava, che cade l’8 febbraio.

Quest’anno l’ha celebrata insieme a molte consorelle alla Casa internazionale della donna di Roma con un convegno organizzato insieme alle femministe della cooperativa BeFree, perché «sono anche loro donne che cercano di aiutare altre donne, ci sono donne (le maman, ndr) che sfruttano altre donne, ma noi siamo più potenti, dobbiamo solo unire i nostri sforzi».

Cosa pensa, Madre Superiora, degli accordi bilaterali stipulati di recente dal governo italiano con la Libia e con la Nigeria? Sono utili?

Il piano firmato con Tripoli non aiuta per niente il nostro lavoro, rende le donne ancora più vulnerabili. Possono solo ritornare ancora in Europa e in modo ancora più pericoloso, più sfruttate e più abusate. C’è da riflettere molto di più su ciò che si combatte: la povertà, i trafficanti e la corruzione a tutti i livelli. Questi sono i mostri da abbattere, che opprimono le ragazze. SlavesNoMore si propone di ridare alle ragazze la loro dignità, aiutarle a tornare anche, ma non nella sconfitta e nel disonore. Rimpatriarle così su due piedi significa esporle a una grande umiliazione. Negli ultimi 24 mesi ne sono arrivate circa 12mila a Lampedusa, la maggior parte minori o sulla soglia dei 18 anni, moltissime analfabete, prese nei villaggi dello Stato di Edo in Nigeria con il miraggio di un lavoro da parrucchiera o da cameriera. Sono quasi sempre le figlie più grandi di una famiglia estesa e i genitori accettano di lasciarle andare perché sperano che possano contribuire a mandare a scuola i fratelli più piccoli. E intanto loro si indebitano, 50-80 mila euro arrivano a dover pagare, dietro minacce alle famiglie d’origine. Se avessero la possibilità di andare a scuola sarebbero molto meno preda dei trafficanti. C’è tutto un lavoro di prevenzione da fare ed è quello di combattere povertà e ignoranza. Salvare la donna africana significa salvare l’Africa perché è il caposaldo della società.

Le mafie italiane sono colluse con i trafficanti africani e mediorientali?

Certo che ci sono connivenze, lo sappiamo bene. Chi organizza la tratta se non avesse connivenze in Europa e in Italia non potrebbe fare niente. È una catena la schiavitù, con tanti anelli. Sulla pelle dei poveri mangiano tutti, tranne loro. Ci mangiano anche i proprietari degli alberghi e delle case, in ogni passaggio.

Il governo per sveltire l’esame delle richieste di asilo ha tagliato il ricorso in appello, cosa ne pensa?

Non si può rimandarle indietro così. Bisogna ascoltare la loro storia e ci vuole tempo per farla emergere. Ci vuole tempo per capire se sono vittime di tratta e hanno il diritto di essere aiutate. Noi ne abbiamo reinserite 6 mila in Italia, passate dalle nostre case rifugio. Alcune hanno ottenuto anche dei risarcimenti per quello che hanno passato. L’ar.18 del Testo unico sull’immigrazione, quello sì, ci ha aiutato.

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