Un modo per imboscarsi era di marcare visita, d’inventarsi un malanno convincente che dispensasse dal servizio per beneficiare di un periodo di riposo quanto più possibile prolungato. In realtà, più che al riposo, si mirava all’allontanamento dall’ambiente di caserma per il quale si nutriva un’avversione viscerale: non avendo trovato un sotterfugio per evitare la leva obbligatoria, almeno si cercava di accorciarla. L’ideale, per noi, si materializzava in un’infermeria presidiaria o, magari, nell’ospedale vero e proprio. E che c’era di meglio, nella capitale, del Celio? L’ospedale militare, dal nome del colle dov’è situato, appariva un caravanserraglio per gli imboscati (interpreti persuasivi delle malattie più fantasiose di cui si potesse restare affetti) di tutte le caserme di Roma e provincia. Rappresentava l’aspirazione di ognuno, il Celio. Se ci fosse il monumento all’Imboscato d’Italia, il luogo sarebbe stato certamente lì.

Da reduci, sul vialone dei Fori Imperiali, della solenne sfilata del 2 Giugno dinanzi al palco di Giovanni Leone (al primo anno da presidente della Repubblica), la patologia si presentò con una provvidenziale distorsione al piede. Che non tardò a trasformarsi in “sospetta frattura”, per i ripetuti lamenti. Con tale referto, giungendo da La Storta (quando il destino è nel nome) sulla Cassia, varcammo l’ospedale in ambulanza per guadagnare il sospirato letto di corsia. Una corsia lunghissima, capace di acquartierare una compagnia composita di soldati d’ogni arma. Intanto, avremmo evitato il cubo: quel fare e disfare ogni mattina la branda piegando su se stesso il materasso, sì da formare un solido geometrico simile al cubo.

L’ordine e il comando vigevano anche in un ospedale militare, si capisce. Ci accorgemmo subito, quasi con raccapriccio, che a dirigere la corsia non c’era un sottufficiale-infermiere incarognito, ma una suora. Già eravamo usciti traumatizzati, dall’età infantile dell’asilo, per il dirigismo delle suore e tornare a vent’anni a dipendere da loro non ci faceva stare affatto tranquilli. Non sbagliavamo: quella suora, caposala o capo-corsia che fosse (“capo di pezza”, la chiamavamo per scherno fra di noi, a causa del copricapo di stoffa) era il dispotismo personificato. Certo, bisognava mostrare polso per sovrintendere una corsia di cento finti malati, ovvero una masnada di lavativi. Ma il più perfido dei marescialli, in caserma, non arrivava a paragonarsi alla suora che, sebbene grassa e attempata, faceva tremare quella levata di giovanotti già protestatari nelle piazze del ’68 e d’intorni. Altro che convalescenza da passare a casa! Il Celio, nove militari su dieci, li faceva rientrare ai propri corpi. D’altronde, il rientro in caserma, dopo il soggiorno sul fatale colle, sarebbe sembrato un ritorno a casa. E pazienza se si passava, fra i commilitoni, da imboscato a imbranato.

Al policlinico Gemelli nello scorso gennaio, sempre a Roma, è stato presentato il progetto “Medicinema” – mai sperimentato nel paese, si annunciava – che prevede l’installazione di una sala cinematografica in corsia come efficace mezzo terapeutico per i degenti. Una precisazione: ai tempi del nostro ricovero al Celio, un cinema c’era già, fra i padiglioni dell’ospedale, e ci faceva stare effettivamente meglio, il pomeriggio, lontani dalla suora.