«Gli uomini, specie bizzarra, vorrebbero sfuggire alla morte. E alcuni gridano, morire, morire, perché vorrebbero sfuggire alla vita. “Quale vita, io mi uccido, mi arrendo”. Ciò è pietoso e strano, è un errore. Ma ho incontrato degli esseri che non hanno mai detto alla vita, taci, e mai alla morte, vattene. Quasi sempre donne, belle creature»: sono righe tratte da La follia del giorno, uno straordinario racconto scritto nel 1949 da Maurice Blanchot, romanziere e soprattutto critico tra i più influenti degli ultimi settant’anni, del quale torna ora disponibile, in nuova traduzione, uno dei maggiori libri teorici, elaborato tra il 1951 e il 1955: Lo spazio letterario (postfazione di Stefano Agosti, traduzione di Fulvia Ardenghi, il Saggiatore, pp. 303, € 29,00).

Alcuni temi nodali
Nelle sue pagine non si trova soltanto una delle più significative discussioni novecentesche sullo statuto della «letteratura», o meglio sull’essenza della moderna arte della scrittura, esaminata convocando in prima istanza i percorsi prototipici di Mallarmé, Kafka, Rilke, Hölderlin: Lo spazio letterario è anche e soprattutto una riflessione inquieta e molto intensa, spesso spiazzante, su alcuni temi nodali, di cui Blanchot mostra l’implicazione reciproca: cosa debba intendersi con la parola «esperienza» e che rapporto questa intrattenga con il linguaggio; quali siano i modi della nostra solitudine e della nostra comunicazione possibile; perché non smettiamo di essere irresistibilmente affascinati dalle immagini; come si declina il nostro confronto interminabile, e sovente sleale, con la morte.
Acute asperità costellano ogni capitolo, e lo stesso stile di Blanchot, votato all’ossimoro, al paradosso, all’antinomia, non testimonia la ricerca di una trasparenza immediata. Eppure è improbabile che una volta cominciata la lettura la si abbandoni: sugli enigmi e sulle aperture proposte da questo volume non è facile rinunciare a tornare. Proprio a partire da Lo spazio letterario, del resto, Blanchot ha costruito una complessa area d’intersezione tra discussione critica, argomentazione filosofica e discorso letterario, e partendo da qui ha tentato una trasformazione dei modi stessi del pensare.

Forse la peculiarità maggiore del suo lavoro sta nella ricerca di una parola e di una riflessione disposti a contestare la propria stessa autonomia, capaci cioè di riaprire forme e concetti allo scopo di approfondire le prospettive di comprensione della complessità contemporanea. Se Blanchot scrittore è stato anche critico e filosofo (e dissidente politico), e se in quanto filosofo non ha cessato di essere scrittore, questo è stato possibile in ragione di un dinamismo di fondo la cui intenzione era quella di costruire un sistema aperto, sospendere ogni eccesso di riferimento della prassi culturale a se stessa, e insomma rompere il cerchio fatato dentro il quale il pensiero continua ad aggirarsi quando si accontenta di rivolgersi a ciò che gli è già da sempre possibile pensare, all’interno della tradizione e a partire dall’orizzonte in cui si trova situato.

È facile capire, allora, come sia potuto accadere che un’intera schiera di celebri lettori – tra gli altri Georges Bataille, Gilles Deleuze, Jacques Derrida, Michel Foucault, Pierre Klossowski, Jacques Lacan, Emmanuel Lévinas – abbia visto in Blanchot un punto di riferimento determinante, dichiarando di aver contratto con il suo lavoro un notevole debito intellettuale. Tuttavia, questo omaggio a Blanchot tributato dai maestri della grande stagione critica francese (quella di cui oggi va maturando una certa relativizzazione, perché ormai percepita come distonica rispetto alle urgenze attuali, non ultime quelle politico-sociali), mentre ha permesso di riconoscere in lui un autore centrale per il discorso filosofico e le sperimentazioni artistiche contemporanee, ha però anche avuto l’effetto di rendere l’interpretazione dei suoi testi in un certo senso predeterminata. Troppo spesso, infatti, nel leggere Blanchot ci si è affrettati a cogliere quanta etica post-heideggeriana, quanto decostruzionismo, quanta teoria dell’evento, quanta archeologia del sapere, quanta psicoanalisi strutturale vi fossero già in nuce presenti. E così si è letto in Blanchot soprattutto ciò che i suoi interpreti ne avevano messo in rilievo, favorendo non pochi fraintendimenti ed equivoci, con relativi feticismi, promossi sia dagli ammiratori che dai detrattori della sua opera: Blanchot nichilista e anarcoide, Blanchot pensatore irrazionalista della scrittura e sacerdote di un «fuori» indicibile, Blanchot teorico del tumulto sessantottino, Blanchot apologeta della fine dell’età della carta, e così via.

Da «Riga» al »Verri»
Ora che cade in un momento di relativa eclissi della cosiddetta French Theory, la ripubblicazione di Lo spazio letterario (e la nuova reperibilità, anche in Italia, di vari materiali testuali, critici e documentari: Riga ha dedicato a Blanchot un numero monografico nel 2017, Il verri ne ha appena fatto uscire un altro, sotto il titolo «L’insubordinato») ci consegna una rinnovata occasione di confronto con un autore il cui destino è stato condizionato, nel bene e nel male, dal fatto di essere «troppo filosofo per i letterati e troppo letterato per i filosofi», come lui stesso scrisse in una lettera alla sorella Marguerite. E ci sarà così possibile misurare con maggiore immediatezza e minori filtri speculativi il contributo specifico della sua meditazione sul valore profondamente antropogenetico dell’arte, e soprattutto sulle relazioni che essa intrattiene con quanto nella esistenza, nel linguaggio, nel desiderio degli uomini richiede loro di smettere di ripiegarsi su se stessi, invitandoli alla ricerca di forme ancora impensate di comunicazione: di prassi e pensieri che, rendendoli più capaci di rinunciare a denegare la morte, li aiutino a non mettere a tacere l’esperienza e la vita, a restarvi più intensamente fedeli.