Il mondo letterario e giornalistico americano continua a coltivare, sia pure sporadicamente, il genere della recensione tagliente, criticamente ben motivata, incurante delle buone maniere e degli intrecci editoriali tipici del mercato letterario dei nostri tempi. Un po’ d’invidia, chi approda negli States dal paludoso mondo del giornalismo letterario italiano, non può non provarla.

Forse non è sorprendente che un buono scrittore e giornalista indiano come Akash Kapur, nato a Auroville, città-utopia a sud del continente asiatico (un piccolo modello sperimentale di convivenza interetnica e civile), educato in buone scuole americane, autore di un importante libro sul paese dove ora vive, India Becoming (Harvard University Press 2002), abbia stroncato impietosamente sul supplemento librario del «New York Times» del 13 dicembre, il nuovo romanzo del controverso e pittoresco autore Gregory David Roberts, appena tradotto da Neri Pozza mantenedo il titolo originale, L’ombra della montagna (traduzione di Vincenzo Mingiardi, p. 1081, euro  23,00). Il primo libro di Roberts, Shantaram, ha venduto nel mondo milioni di copie e fornito un rumoroso esempio, anche ai lettori della traduzione italiana (Neri Pozza), del genere noir in salsa indiana (mescolata con il condimento piccante dei film d’azione prodotti a Hong Kong).

L’autore è australiano e ha conosciuto in diretta l’esperienza della criminalità, di una lunga prigionia nel paese natale, di otto anni trascorsi a Bombay negli slum, fra assistenza ai diseredati e collaborazione con i gangster della mafia. Nei suoi piani, il nuovo romanzo è il seguito di Shantaram e costituisce il secondo volume di una possibile trilogia. Ora, a quanto scrive Kapur, L’ombra della montagna esibisce gli stessi pochi pregi e i molti difetti di Shantaram: conoscenza diretta del mondo (o sottomondo) raccontato, ma scrittura goffa, inutilmente ripetitiva negli effetti orrorosi, pretenzioso nel distribuire sentenze filosofiche e vuote pillole di saggezza. Il lettore, secondo Kapur, deve «armarsi di molta pazienza e non poca generosità di spirito (e aver goduto nella notte precedente di un lungo sonno pacificatore) per sciropparsi pagine e pagine di parolacce e paragrafi su paragrafi di dialogo spesso esageratamente artificioso fra i bulli della malavita».

Decisamente più sorprendente è la lunga e meticolosa stroncatura apparsa sulla «New York Review of Books» (3 dicembre 2015) di un altro massiccio romanzo (Doubleday, 720 pagine) intitolato ironicamente (data la lunghezza del testo) A little life (Una piccola vita), scritto dall’americana Hanya Yanagihara. Le interviste comparse su «Newsweek», «The Wall Street Journal» e altrove ci danno tutte le informazioni necessarie: Yanagihara è quarantenne, vive nel quartiere Soho di Manhattan (ma le piacerebbe molto andare a stare a Tokyo, affascinata dalla mescolanza di antichi riti e sensibilità moderne tipica della capitale giapponese), discende da una famiglia hawayana e lavora come autrice di corrispondenze di viaggio per la rivista «Condé Nast Traveler». A little life è entrato tra i finalisti del Booker Prize, ha vinto altri premi, ha ricevuto recensioni entusiastiche sul «New Yorker», su «Atlantic» e altre riviste di solito serie e severe. La copertina è, come il titolo del libro, volutamente ironica: c’è una fotografia di Peter Hujar che può far pensare a un uomo in preda al dolore, invece è intitolata «Un uomo durante l’orgasmo».

Il romanzo racconta la storia di formazione di quattro giovani americani che frequentano insieme un college (forse Harvard), stringono un’amicizia molto tenace, si avviano a carriere di successo. Un po’ come nel Gruppo di Mary McCarthy: là era una piccola cerchia di compagne di college legate da amicizia e avviate alla vita, descritte da una di loro, con sguardo femminile; qui di nuovo uno sguardo femminile che però descrive un gruppo di quattro giovani maschi.
Il recensore della NYRB che si è messo contro corrente dando un giudizio severamente negativo del romanzo è Daniel Mendelsohn, professore al Bard college, una scuola prestigiosa dedicata alle arti liberali che ha avuto come docente anche Hannah Arendt. Mendelsohn è uno studioso della tragedia greca, ha tradotto poesie di Kostantinos Kavafis e scritto due libri autobiografici e due raccolte di saggi critici. In un’intervista del 2012 a Lisa Levy per «The Millions» ha parlato a lungo dei suoi metodi critici e difeso l’utilità, quando necessarie, delle stroncature.

Le sue obiezioni sono mosse con spirito equilibrato, non prima che vengano elencati alcuni dei pregi del libro, fra cui il tema sicuramente interessante e poco frequentato di cui si racconta, lo sguardo femminile, la capacità di evocare gli ambienti con precisione sociologica, la concentrazione sulla storia dei quattro personaggi, eroi stendhaliani alla conquista della grande metropoli. Quindi, dopo aver criticato alcuni difetti della scrittura (certi grovigli sintattici che un buon editor avrebbe potuto eliminare, certi eccessivi voli lirici), Mendelsohn muove la sua obiezione principale, che è quella di aver rovinato (e inutilmente allungato) la trama principale – costruita attorno al tema dell’amicizia e della vita da adulti dei quattro personaggi che si sono incontrati nella prima giovinezza – con una trama secondaria, destinata a soppiantare quella principale: il lento affiorare alla nostra conoscenza (e anche alla sua) dell’oscuro segreto del personaggio chiamato Jude, che lo spinge a lunghe e strazianti scene di auto-punizione, masochismo, odio e ferimento continuo del proprio corpo, tradimento di tutti coloro che lo amano, alla fine il suicidio. L’obiezione di Mendelsohn non è dettata da moralismo o fastidio per il ricorso al tema della pedofilia, molto presente nelle cronache giornalistiche e medico-psicologiche di questi anni, e sui suoi i effetti perturbanti su coloro che ne cadono vittime. L’obiezione è basata, invece, su precise ragioni di struttura narrativa e capacità di accordare fra loro i due intrecci del libro. Mentre la prima trama è strutturata come quella di un romanzo di formazione e rafforzata dal tema dell’amicizia, la seconda trama è, dice Mendeshon, quella dello striptease: la rivelazione, attraverso una serie di flash-back (spesso psicologicamente poco credibili) dell’orribile passato di Jude.

Eppure, osserva il critico, sono proprio queste scene inutilmente penose ad avere toccato un nervo sensibile e inatteso nei lettori e anche nei critici. E passa poi a rovesciare il giudizio di Jon Michaud che sul «New York Times» aveva lodato l’aspetto «sovversivo» del libro, e l’esclusione di qualsiasi possibilità di redenzione e di salvezza. Per Mendelsohn, A little life esemplifica un fenomeno la cui comparsa nella società americana è preoccupante: «Il romanzo di Yanagihara – conclude – ha spinto molti lettori a confondere l’angoscia con l’estasi, il piacere con il dolore».