Non vado in un museo o a un’esposizione per vedere dei quadri ma per incontrare degli uomini. Sono rari gli uomini. Incontriamo più spesso dei prestigiatori, tipi eleganti e sempre a proprio agio… Non hanno niente nelle mani, niente nelle tasche, eppure ogni volta il loro gioco riesce. Questione di gusti. Personalmente amo chi di tanto in tanto sbaglia. E soprattutto chi non produce sempre le stesse cose. Chi ne tenta ogni giorno di ignote e pericolose a rischio di rovinarsi la carriera. Oppure chi non può non notare una porta senza avere voglia di guardarci dietro, anche se dietro si nascondono trappole per lupi. Ci sarà sempre posto nel mio cuore per opere che, per quanto irrisolte o instabili, mi facciano pensare a un amico. Certo la perfezione è bella. Ma mi fa paura. È come il paradiso: niente di più spaventoso». Così, in uno scritto del 1945, Roger Bissière espone senza giri di parole la propria visione «umana» dell’arte. Per certi versi fa pensare alla poesia come «stretta di mano» di Paul Celan. «Solo mani vere scrivono vere poesie», dice Celan, e potrebbe dirsi anche della pittura «lirica» di Bissière, soprattutto quella degli ultimi venti anni della sua carriera: così prossima all’informe, ma senza la sistematicità di una scelta informale; dotata di una lucida visione astraente, che non perde di vista il referente mondo; e così primitiva, senza però mai scivolare nella brutale deriva della rude materia.
Oggi il percorso realizzato da questo pittore è tema di una piccola ma intensa retrospettiva a lui dedicata dal Musée des Beaux-Arts di Bordeaux, in corso fino a dicembre prossimo. Dans l’intimité de Roger Bissière (1886-1964), questo il titolo, presenta 17 opere come 17 tappe di un maestro profondamente immerso nella tradizione francese. Un artista che vive intensamente le dinamiche dell’arte parigina almeno fino al 1939, da cui poi si allontana come in cerca di un «esilio interiore», per affermarsi dieci anni più tardi con un’opera di una tale inedita originalità da porsi ai vertici delle esperienze pittoriche internazionali.
Formatosi all’École des Beaux-arts di Bordeaux, e successivamente, nel 1910, a quella di Parigi, ha fama di decoratore e pare che abbia preso parte insieme a Maurice Denis agli affreschi per il Teatro degli Champs-Elysées. L’aspetto decorativo-monumentale di questo periodo è riconoscibile nella prima opera in mostra, Jeune Fille au poisson, un olio su tela del 1920, dove la ragazza dai volumi grevi e severi, seduta con un pesce in grembo e una natura morta alle spalle, è colta alla stregua di una muliebre statua domestica. Di due anni più tardi è la Femme à la guitare. Il soggetto femminile stavolta non ha rilievi. Una pennellata piatta sintetizza sulla superficie della tela la chitarra lo spartito e il tavolino in una simultaneità cubista del tutto originale. Già questo ci fa comprendere quanto il trentenne Bissière, pur preso da differenti tendenze del periodo, cerchi ed elabori una via autonoma alla sua pittura. Del resto a Parigi l’attività che gli dà da vivere è il giornalismo. Dal 1916 si occupa regolarmente di esposizioni d’arte e sarà sulla rivista «L’Effort moderne», dopo due anni, che pubblicherà la prima monografia sull’amico Braque. Ma il discorso si complica nella temperie causata dai feroci antagonismi pro e contro il cubismo. Un’iniziale adesione al detrattore Vauxcelles (che lo considera, insieme al compagno Lhote, un pittore dalla composizione semplice e chiara) non è sufficiente a disinnescare in Bissière la forza dirompente del cubismo, di cui un qualsiasi «ritorno all’ordine» deve tenere conto.
Scrive ancora due monografie per «L’Esprit nouveau», su Seurat e Ingres. Attento al loro modo di costruire l’immagine, Bissière ricerca nella tradizione il modo migliore di continuare a rappresentare la figura. Ritorna a Cézanne. Le due opere in mostra come Paysage (1925) e Deux Nus (1928) ne danno ampia prova, sia per le scelte cromatiche che per quei tocchi di colore che fanno vibrare l’aria e la luce per riflesso generale. Sono gli anni in cui insegna all’Académie Ranson, dove nel 1934 crea anche un atelier di affresco. Il disegno si geometrizza, la gamma cromatica conosce accensioni espressioniste, come dimostra la Femme au filet del 1936. Intanto la sua attività espositiva, fedele allora alla Galerie Druet, dura fino al 1937. Soltanto dieci anni più tardi ritornerà a esporre, ma da presupposti completamente diversi.
Come per Fautrier che si rifugia nelle montagne, o per Bram van Velde che erra solitario per le strade di Parigi, sono anni di silenzio quelli in cui accade la guerra. Ma sono anche anni memorabili per la scoperta della «sistina» dei primitivi, le grotte di Lascaux, a sessanta chilometri da dove Bissière si trasferisce con la moglie Mousse e il figlio Marc-Antoine (artista anche lui, poi noto col nome di Louttre B.). Qui, nel Lot, in località Boissiérettes, tra la campagna e le vacche, nel più assoluto isolamento, comincia un lavoro di affinamento di sguardo. Sono anni di autarchia sensibile, di passaggi dagli impasti densi delle tempere alle trasparenze degli olii. Di stilizzazione del disegno e di ulteriori frammentazioni lineari. Tutto questo lo conduce alla rappresentazione per griglie, dove il colore suggerito dal mondo può recuperare piena autonomia sulla superficie della tela. Accade ad esempio nell’opera Equinoxe d’été (Composition 272), del 1955, o in Brumaire (Composition 454), del ’61. Poi per rendere la pittura più palpabile e guadagnare le vibrazioni della superficie, la griglia si fonde in un cromatismo baluginante e si sospende nei liquidi spazi di Silence de l’aube e Couchant del 1964, che è anche l’anno della morte.
«Ho camminato lentamente attraverso esperienze diverse e poco a poco, sia per la maturità degli anni che per evoluzione naturale, sono giunto alla mia opera attuale, la sola che conta ai miei occhi perché tutto il passato non è stato che cammino”» dice tre anni prima di morire. A quest’epoca la sua pittura è divenuta sempre più contemplativa, più interiore, ma non meno reale. Come il poeta che non può inventare vocaboli, ma può innescare nuove visioni a partire da inedite alleanze tra le parole, così lavora l’ultimo Bissière coi colori, per cromatici sodalizi sorgivi. Per dirla con Valery il pittore «non deve dipingere ciò che vede, ma ciò che sarà visto». E Roger Bissière lo ha fatto, con mani semplici nutrite di natura.