Non si può vivere in un «conflitto permanente con le legittime autorità civili». Quanto augurato nella storica lettera di Benedetto XVI ai cattolici cinesi (2007) potrebbe presto tradursi in una riconciliazione tra Pechino e il Vaticano dopo oltre dieci anni di corteggiamento. Secondo fonti incrociate, le due parti avrebbero finalmente raggiunto un accordo in grado di sciogliere il nodo gordiano delle nomine episcopali, vero ostacolo alla normalizzazione dei rapporti tra governo cinese e Santa Sede.

In Cina coesistono due Chiese, più o meno numericamente equivalenti: quella «patriottica», riconosciuta da Pechino (con i propri vescovi), e quella sotterranea, vicina al Vaticano e costretta a operare in clandestinità per sfuggire alla repressione del governo, ostile a qualsiasi forma di condivisione del potere. L’intesa sui vescovi – se confermata – punta a replicare il «modello vietnamita» in base al quale – seppur in assenza di rapporti diplomatici formali – dal 1996 la Santa Sede fornisce una rosa di pretendenti entro cui il governo di Hanoi seleziona la propria scelta. Un format simile (ma con il papa a esercitare potere di veto sulle nomine cinesi) potrebbe facilitare una riunificazione della comunità cattolica sotto lo stesso tetto. Ma difficilmente basterà a convincere Pechino, che mal tollera l’esistenza (dal 1951) di relazioni formali tra la Santa Sede e Taiwan, una provincia ribelle da riannettere alla madrepatria secondo le autorità cinesi. Anche su questo punto paiono esserci presupposti incoraggianti.

Secondo quanto spiega al manifesto un dirigente di Tv2000, emittente controllata dalla Conferenza Episcopale, il Vaticano sembra da tempo preparato all’inevitabile rottura, come dimostra la sostituzione del nunzio apostolico sull’isola democratica con un semplice chargé d’affaires. Per Pechino l’interruzione degli scambi diplomatici tra la Santa Sede e Taipei costituirebbe una duplice vittoria: non solo riporterebbe nell’orbita cinese l’unico stato europeo a non riconoscere ancora ufficialmente la Repubblica popolare, ma potrebbe persino riuscire a edulcorare le critiche internazionali sullo scarso rispetto dei diritti umani oltre la Muraglia.

È uno scenario che indigna buona parte della Chiesa locale, soggetta a restrizioni e soprusi in netto disaccordo con la libertà di culto professata dalla stessa costituzione cinese. Mentre il Vaticano patteggia con le autorità, due vescovi clandestini si trovano ancora dietro le sbarre e altri due sono stati invitati a lasciare l’incarico per far posto a due colleghi prescelti da Pechino.
Chiamato a commentare le negoziazioni con i vertici comunisti, un prelato di Chengdu, attivo nella difesa dei diritti umani, paragona l’accordo a «una stretta di mano con Satana» e preannuncia un’intensificazione della repressione. La questione, tuttavia, assume connotazioni più sfumate quando si prende in esame il sentire della comunità laica.

La stessa concezione del credo assume «caratteristiche cinesi» (confuciane per l’esattezza) come ci ricorda la devozione di una coppia agé ultraconservatrice di Pechino per il «rispetto dei riti» e delle autorità ecclesiastiche a prescindere dalla loro affiliazione. Il dibattito in corso non sembra tangerli sebbene – in barba alla censura – dicano di avere accesso a ogni tipo d’informazione, compreso il sito ufficiale della Santa Sede.  «Ci sono vescovi nominati dalle autorità cinesi che non sono approvati dal Vaticano e vescovi nominati dal Vaticano ma non riconosciuti da Pechino. Tuttavia, la maggioranza è stata confermata anche dal Vaticano, così che frequentare la messa nelle chiese patriottiche non costituisce un problema anche per i cattolici più autentici», ci spiega Yang Fanggang, autore di uno studio ripreso ampiamente dai media cinesi secondo il quale, entro il 2030, il gigante asiatico supererà gli Usa, diventando il primo paese al mondo per numero di cristiani. «La distinzione è più rilevante per il clero, specialmente per i vescovi», chiosa l’esperto.

Ma secondo il teologo Massimo Faggioli, i negoziati con il governo cinese vanno inseriti nel solco di una lunga tradizione di rapporti tra Chiesa e potere secolare, aggiornata alla luce di una spinta globalizzante che implica una maggiore adattabilità delle istituzioni ecclesiastiche al contesto locale. Stando a quanto spiega lo studioso alla stampa cinese, «l’obiettivo dei colloqui non è ideologico ma piuttosto pastorale, in quanto finalizzato ad aiutare le chiese locali a vivere la loro fede in una certa realtà concreta, senza divisioni artificiali tra fazioni». D’altronde, il Vaticano non è nuovo ai compromessi. Come ricorda George Weigel su Foreign Policy, l’obiettivo dell’Ostpolitik – la politica di normalizzazione dei rapporti anni ’60 avviata con la Repubblica Democratica Tedesca e gli altri paesi del blocco orientale – era proprio quello di assicurare alla Chiesa cattolica un modus non moriendi oltre la Cortina di Ferro.

Di sopravvivenza si tratta anche nella fattispecie cinese. Da sempre numericamente più esigua rispetto alla comunità protestante – secondo l’Holy Spirit Study Center di Hong Kong – la chiesa cattolica cinese sarebbe passata dai 12 milioni di fedeli del 2005 agli attuali 10 milioni. Complice il progressivo spopolamento delle campagne, dove la Santa Sede vanta tradizionalmente il maggior numero di seguaci. Il tutto mentre la classe media cittadina è alla ricerca di una rinnovata spiritualità con cui riempire il vuoto ideologico indotto dall’ «arricchimento glorioso».