La barca scivola leggera nel dedalo di canali che si dipartono dal Co Chien, uno degli ampi bracci del Mekong. Il delta del grande fiume, uno dei più vasti del pianeta, è un enorme giardino coltivato in ogni minimo lembo di terra. Terra che il fiume strappa e che il lavoro di gru e chiatte restituisce alle rive, rinsaldando gli argini e regalando limo fertile, o che viene portata, sotto forma di ghiaia e sabbia, verso i cantieri. Lungo la superficie umida delle terre che bagna, tra le più densamente popolate del mondo, ogni casa ha il suo frutteto di agrumi, jackfruit, papaya, banane e piccoli orti di insalata e spinaci d’acqua. Vasi di fiori e bonsai ovunque, anche sulla prua delle chiatte che attraversano il delta di un fiume lungo quasi 5mila chilometri, che nasce in Tibet e, attraversando la Cina, bagna metà del Sudest asiatico.

PIERRE GOUROU, uno dei padri della geografia umana, aveva spiegato la densità di queste terre proprio con un’agricoltura meticolosa e intensiva che richiede molta manodopera. E il Vietnam, dal Song Hong – il Fiume rosso – al Mekong, è una sequenza di risaie, case e lavoro. È necessaria tanta gente per un sistema di coltivazione che riesce a nutrirne altrettanta in questa «civiltà del vegetale», come Gourou l’aveva chiamata, dove tutto è ancora di legno, bambù, foglie di palma. La plastica ovviamente fa la sua parte e il fiume ne vede tanta. Ma non ha ancora ragione di pescetti e rane giganti, anguille e carpe «elefante», gamberi e gamberetti di fiume, delicati come la cucina – rapida e raffinata – di quest’angolo di mondo. Cani ovunque in un Paese dove è comune lasciare la porta aperta e raramente ti fregano sul prezzo. Il fiume è così abitato che dev’essere stato questo il motivo per cui Coppola scelse di ambientare parte della caccia solitaria al colonnello Kurz di Apocalypse Now nella repubblica dominicana: sul Mekong c’è un’abitazione ogni 50 metri.

È FERTILE ma anche molto inquinato: c’è un elevato tasso di arsenico, dovuto agli impianti industriali lungo il suo corso e sconta una perdita di fertilità per la presenza di dighe e idrovore a monte di Cambogia e Vietnam. Secondo uno studio di Francia e Unione Europea, il delta rischia di vedere una diminuzione dei preziosi sedimenti in ragione dell’80% rispetto al secolo passato. Una guerra contro il tempo e contro i danni causati dall’uomo che ne fanno uno tra i dieci grandi fiumi più inquinati del pianeta.

UN TEMPO il Mekong era il delta di un’altra guerra: «Cuba, Cambogia, Laos Vietnam, la rivoluzione trionferà» era tra gli slogan gettonati quando era stato scoperto che la «guerra segreta» degli Stati Uniti contro i piccoli Vietcong aveva sfondato anche in Laos e nel Paese dei khmer che, tinti di rosso, avevano organizzato la resistenza, preparando poi, con il «compagno» Saloth Sar alias Pol Pot, anche l’ennesima stagione buia dell’Indocina.

OGGI QUEST’EPOCA è lontana. Il Vietnam sembra aver fatto pace coi cinesi – temuti e per niente amati e con cui ci fu un brevissimo conflitto tra il febbraio e il marzo del 1979 – e a Phnom Penh c’è un governo amico (nato dall’invasione vietnamita del 1978) anche se i cambogiani (molti khmer abitano nel delta vietnamita) rivendicano l’isola di Phu Quoc, una perla del golfo del Siam che si sta rapidamente tramutando da paradiso tropicale in un luna park turistico per tutte le tasche. Il proprietario di un piccolo resort racconta che la mafia locale dell’edilizia, che vuole cementificare a spron battuto, ha offerto di comprargli strutture e terra. Ma al prezzo «politico» degli espropri governativi non a quello di mercato. Ingiustizia palese ma che probabilmente funzionerà grazie – dice lui – alle amicizie giuste nell’amministrazione e a un’interpretazione della legge difficilmente sindacabile. Il turismo è del resto una delle grandi scommesse del partito unico che ha aperto il Paese agli affari dei notabili locali, alla finanza straniera, alle fabbriche del tessile e dell’hi-tech e, ovviamente, a grandi alberghi e cementificazione selvaggia. È lì che va la sabbia del delta.

IL PARTITO comunista del Vietnam che celebra 88 anni dalla sua fondazione nel 1930, ha anche rinunciato alla pesante propaganda che doveva, dopo la riunificazione, vietnaminizzare un Sud in parte riottoso a diventare socialista. L’impressione, al netto di un’enorme quantità di bandiere rosse, è che alla fine ci sia altro cui pensare che non alla purezza ideologica.

LA SCELTA di battere strade non battute finisce a portarci in un albergo di cui avevamo solo sentito parlare. Si trova sulla costa prospiciente Phu Quoc e per ora è appannaggio soprattutto di turisti locali del fine settimana. Ma quel che sembra averci convinto sono un paio di recensioni che lo sconsigliano: «Pessimo – dice una di queste – perché non ci sono turisti… ma solo locali, sporchi e rumorosi, e alla lobby non parlano inglese». «Posto da evitare – dice un’altra – a meno che non vogliate stare con degli asiatici che non sanno l’inglese». Ci andiamo subito ovviamente e capitiamo in un’ottima quanto surreale situazione. L’albergo è un 4 stelle, enorme e ricoperto di marmo. La cucina non è niente male e la struttura, con le sue circa 200 stanze, offre alcune postazioni a fianco di un’enorme piscina bordo mare. Deserta come l’albergo.

Un piccolo mistero visto che i prezzi variano tra i 20 e i 30 euro per una doppia, spesso con tre letti.

IL MISTERO lo spiega un’informazione che sulle guide non c’è: in questo posto sperduto, dove l’attrattiva sono alcune rocce conficcate come dita nel mare, il partito ha fatto costruire un albergo a suo uso e consumo. Conferenze talvolta e sennò relax per i quadri.

Ma nel frigo bar niente alcoolici e la televisione prende male anche se il wifi – come del resto ovunque in Vietnam – arriva sino in spiaggia. Il cortesissimo staff (che l’inglese lo sa eccome) è un po’ all’antica e non si fa in quattro se non gli viene richiesto. Ma in questo piccolo paradiso l’antica vexata quaestio (sono viaggiatore oppure semplice turista?) sembra trovare la sua risposta più plateale: una risata. Alla faccia di TripAdvisor.