La questione della tassonomia verde sembra interpretare il significato del meteorite del film Don’t Look Up. La risposta superficiale e vuota delle istituzioni di fronte ad un disastro annunciato. E’ sempre più evidente come nel nostro Paese l’assenza di una strategia energetica abbia assunto aspetti imbarazzanti. Si aspetta da mesi un Pniec che non arriva, forse segno di una difficoltà ad assumere decisioni chiare. Tipo: quanta capacità di rinnovabile al 2030, magari individuando il target al 2025, e come raggiungerla; quali programmi e quali strumenti per l’efficienza energetica; quale ruolo del gas nella transizione; la posizione sul nucleare. Un’assenza incomprensibile perché il tema dell’energia deve essere il driver delle politiche industriali nazionali in epoca di finanziamenti del NextGenerationEU. Ma anche perché occorre partecipare con un mandato chiaro al dibattito sulle tappe obbligate della decarbonizzazione al 2030 e al 2050. Il nostro Paese deve chiarire, assumendosene le responsabilità, se e come considerare il gas e il nucleare fonti necessarie per promuovere la transizione ecologica, e quali modifiche intende apportare alla formulazione del prezzo dell’energia, inasprendo o alleggerendo una dipendenza diretta dal gas. I due aspetti vanno affrontati insieme, in modo coerente, anche se sia per la tassonomia verde (gli investimenti della finanza sostenibile), sia per le proposte contro il caro energia le posizioni degli diversi Stati non sono univoche.

Si impone una modifica rilevante del mercato elettrico, con revisione della relativa Direttiva che però segna il passo rispetto alle altre su fonti rinnovabili ed efficienza energetica. Il problema è decidere come affrontare nel modo più efficace possibile, a livello comunitario e a cascata a livello nazionale, la crescente produzione di energia da fonti rinnovabili e come proteggere in questo sviluppo gli utenti finali. In definitiva, decidere di diminuire il livello di incertezza per gli investimenti in impianti che utilizzano fonti rinnovabili, già penalizzati sul fronte del permitting.

La riforma dell’attuale meccanismo di formazione dei prezzi nel quale il prezzo del gas metano rappresenta una funzione di merito, una volta accertata la necessità di accelerare l’autonomia energetica a livello comunitario, diventa necessaria per provvedere in modo strutturale ad assorbire le impennate geopolitiche del gas. Andrà valutata attentamente l’efficacia del metodo della contrattazione a pronti, ed in particolare del pay as bid, viste anche le deludenti esperienze di altri Paesi. Tenendo conto che questo meccanismo, definito «a prezzo discriminatorio», è basato su valutazioni effettuate sul breve periodo, risulta inadatto ad orientare investimenti in impianti con ritorni sul lungo periodo tipici della produzione rinnovabile, che invece deve poter contare su valutazioni molto diverse, come i contratti di vendita con le aste competitive, i contratti a lungo termine PPA e l’autoconsumo collettivo.

LA SOLUZIONE STRUTTURALE in grado di mitigare l’effetto della volatilità del prezzo del gas sulle bollette energetiche potrà pertanto esserci solo quando sarà prevalente il peso dei contratti a lungo termine. Inoltre – per rispondere alle imprudenti proposte della Presidenza del Consiglio sugli extra-guadagni dell’idroelettrico – in un mercato dove il prezzo marginale viene determinato dalle offerte dei cicli combinati alimentati a gas, le produzioni rinnovabili che partecipano al mercato del giorno prima potranno anche ricevere una remunerazione con margini crescenti con il prezzo del gas, ma, essendo l’energia venduta a prezzo fisso in anticipo rispetto alla consegna, e con contratti di durata minima annuale, per loro gli effetti negativi supereranno nel tempo quelli positivi. Il rincaro delle materie prime può inoltre far aumentare i costi capitali anche degli impianti rinnovabili, e l’impatto sul costo di generazione renderanno meno remunerativi i loro investimenti.

Occorre in definitiva ridimensionare il ruolo del gas per investire sempre di più su rinnovabili ed efficienza energetica, eliminando le incertezze. Soluzioni come aumento della produzione del gas in Italia o l’arrivo di navi gasiere cariche di metano liquefatto GNL, in una sorta di controreazione negativa (più il metano è caro, più conviene reindirizzare in Europa le cisterne di GNL dall’Asia all’Europa) non sono soluzioni strutturali a cui fare affidamento. Un’ipotesi concreta, invece, è quella di facilitare lo sviluppo di contratti elettrici di lungo termine basati su tecnologie verdi, che coprano un periodo di 5-10 anni (ora il periodo di trading più lungo sul mercato dei futures è 3 anni). Ciò sarebbe essenziale per stimolare nuovi investimenti in fonti rinnovabili, efficienza energetica e elettrificazione dei consumi finali.

SUL FRONTE DELLA TASSONOMIA delle tecnologie che Bruxelles considera verdi (nucleare e gas) la spaccatura tra Paesi è ancora più evidente. Nonostante le richieste di azioni di contrasto al cambiamento climatico della COP26 che suggeriscono l’eliminazione graduale dei sussidi alle fossili, e nonostante una netta presa di posizione del Recovery Fund e della BEI che non ammettono più finanziamenti alle fonti fossili, ora qui si discute di poter assegnare finanziamenti per la transizione energetica al gas e al nucleare. È una questione politica, ovviamente, con la politica assoggettata agli interessi delle imprese energetiche, ben rappresentati per motivi opposti da Germania e Francia, che tentano di ottenere finanziamenti rispettivamente per la costruzione del gasdotto Nord Stream 2 e di centrali nucleari sempre più costose.

I DUE FRONTI DI FATTO HANNO RESO VANO l’accordo approvato nel 2019 tra Stati e Parlamento europeo cui non è stato più dato seguito. L’ultima parola spetta al Consiglio, ed è una decisione politica dove, si spera, che gli interessi delle lobby lascino il passo a mediazioni fatte sulla base di considerazioni tecniche indipendenti e non a quanto purtroppo già espresso dal Joint Research Centre, il think tank interno della Commissione, troppo piegato a pratiche di greenwashing. Semmai dovesse invece proseguire il suo cammino per la strada annunciata in questi giorni, il documento limiti il periodo temporale (non oltre il 2030) e definisca emissioni specifiche immediate, stringenti ed univoche per tutte le tecnologie (diciamo 100 grammi di CO2 per ogni kWh prodotto). Gli impianti nucleari dovrebbero essere considerati «do not significant harm» solo se il Paese ospitante può garantire che non danneggino l’ambiente, compreso lo smaltimento sicuro delle scorie nucleari (risulta che solo la Svezia abbia affrontato e risolto il tema del deposito dei rifiuti radioattivi). Ma non basta. In teoria, la tassonomia dovrebbe essere definita seguendo criteri scientifici per un sistema di classificazione in linea con lo sviluppo tecnologico, orientando gli investitori verso le fonti sostenibili.

OCCORRE CHE LA CLASSIFICAZIONE rispetti alcuni parametri di valutazione relativi agli obiettivi climatici (mitigazione del riscaldamento globale e adattamento alle sue conseguenze) e ambientali. Ed allora si spieghino bene fattibilità e costi del nucleare in quanto innovazione tecnologica e venga definito il beneficio ottenuto con la tecnologia nucleare sulla transizione all’economia circolare (riuso o riciclo dei materiali e riduzione della produzione di rifiuti), uno degli obiettivi ritenuti più significativi. Indipendentemente dal fatto che ciascun Paese possa continuare a investire nell’una o nell’altra delle opzioni, la sostenibilità delle soluzioni non può essere merce di scambio, né – si spera – rappresentare simbolicamente il meteorite di Leonardo Di Caprio.