L’assassinio del generale iraniano Qassem Soleimani, ordinato direttamente dal presidente americano Donald Trump, rappresenta l’ennesimo atto della cosiddetta ‘guerra globale al terrore’. Di certo non l’ultimo e neppure quello più scontato nella guerra che gli Stati Uniti hanno inaugurato con l’Invasione dell’Afghanistan (2001) e dell’Iraq (2003). Soprattutto perché l’Iran – che assieme ai suoi alleati regionali ha sempre rifiutato lo stigma del ‘terrorista’ – ha saputo mettere a punto diverse misure per resistere agli attacchi americani, a partire dalla capacità di trasformare situazioni sfavorevoli in opportunità per accrescere la propria influenza.

In guisa di colpo di teatro, per restare nella metafora, l’esecuzione di Soleimani, portato a compimento nell’aeroporto civile di Baghdad, dove il comandante della forza al-Quds era ufficialmente in visita, con un missile teleguidato a distanza, ci dà il senso palpabile di quanto l’America abbia cambiato il modo di concepire e fare la guerra, soprattutto a partire dal 2001: dall’idea clausewitziana della ‘politica con altri mezzi’ che presuppone (proprio in quanto affare politico) un riconoscimento dell’avversario e dunque un rispetto delle leggi della guerra, a qualcosa di molto diverso – ovvero, un affare di ‘necessità’, una questione ‘tecnica’, senza passare per autorizzazioni parlamentari o il vaglio del dibattito politico, condotta sempre più nell’informalità, con operazioni segrete, forze speciali, mercenari, droni e satelliti.

Eppure proprio in questo ostinato tentativo di disumanizzare il target bellico e non riconoscergli lo status di rivale politico si rivela tutta la forza politica che, seppur celata a forza, non può essere eliminata e che l’Iran ha saputo sistematicamente ribaltare a suo vantaggio.

Questo perché, come risposta all’attacco dell’11 Settembre 2001, la guerra al ‘terrorismo’, termine tanto flessibile quanto opportunisticamente manipolabile, ha offerto la giustificazione d’oro agli Stati Uniti per portare avanti un disegno imperiale, bollando come ‘terroristi’ tutti gli avversari politici (statali e non-statali), seppur neanche indirettamente coinvolti negli attacchi dell’11 Settembre.

Non è sorprendente che l’Iran, che con la rivoluzione del 1979 passò dall’essere il pilastro dell’egemonia americana in Medio Oriente a suo principale sfidante, sia il target numero uno nella lista dei nemici di Washington. Dopo l’invasione dell’Iraq del 2003, la resa dei conti tra Washington e Teheran ha preso varie forme (dalle minacce di invasione, all’accordo nucleare di Obama all’annullamento di quest’ultimo da parte di Trump) e, come spesso viene ammesso nei circoli diplomatici americani, se gli Stati Uniti non avessero dovuto gestire un enorme danno di reputazione dopo l’invasione dell’Iraq nel 2003, l’invasione dell’Iran sarebbe già avvenuta.

L’Iran ha tuttavia saputo sistematicamente sfruttare la guerra al terrore e rafforzarsi di conseguenza.

Innanzitutto, l’invasione dell’Afghanistan nel 2001 e quella dell’Iraq nel 2003 hanno di fatto consentito all’Iran di allentare l’allerta nei confronti del regime talebano e quello di Saddam Hussein (entrambi rivali) per dare nuovo respiro alla propria strategia regionale. Nelle trame della ristrutturazione americana dello stato iracheno, l’Iran si è saputo non solo inserire, ma ha saputo diventare ben più influente rispetto agli alleati-clienti di Washington.

L’esercito iracheno ricostruito con i soldi americani è ideologicamente più vicino all’Iran e agisce spesso spalla a spalla con le milizie di Hashd al-Sha’bi, sostenute dall’Iran. In Libano, i tentativi israeliani e americani di distruggere Hezbollah, dopo l’invasione israeliana del Libano nel 2006, non hanno solo fallito, ma hanno addirittura visto Hezbollah diventare più forte militarmente e politicamente. In Siria, infine le aspettative di una ristrutturazione del potere di Damasco che potesse servire gli interessi di Washington e dei suoi alleati nella regione, Israele e paesi del Golfo, non si è realizzato, soprattutto grazie all’intervento dell’Iran e di Hezbollah in sostegno del regime di Asad.

Di questa strategia regionale, l’architetto era proprio Qassem Soleimani. Ma nonostante fosse tanto ammirato e temuto, è indubbio che negli ultimi anni, il leggendario fiuto militare di quest’uomo fosse rimasto costretto in un brevissimo respiro politico. Il sostegno al dittatore Asad ha alienato il consenso trasversale (cioè, non solo della base sciita) di cui Teheran godeva prima del 2011.

Da Ottobre 2019, le proteste in Libano e in Iraq che hanno denunciato apertamente il sistema settario, chiedendo la fine delle influenze straniere (in cui l’Iran ha uno share considerevole) in una rivendicazione di sovranità popolare senza precedenti, hanno profondamente messo in questione la tenuta politica dell’influenza iraniana in Medio Oriente. Infine, la repressione brutale delle proteste in Iran nell’ultimo mese hanno messo in luce la debolezza e i limiti di un disegno che si poggia su una struttura di potere autoritaria e brutale.

Ma l’uccisione di Soleimani potrebbe, come in passato, offrire all’Iran una facile carta politica: l’opposizione all’imperialismo americano. Così come l’Iran ha bisogno di una base popolare per espandere e mantenere la sua influenza nella regione, anche l’America ha bisogno di alleati e sostenitori per mantenere ed espandere la sua presenza nella regione. Le guerre imperiali d’altronde sono fondate sulla strategia del ‘conquistare cuori e menti’ e tendono a fallire quando questa strategia non si realizza.

Se l’Iran è stato storicamente in grado di sfruttare l’antiamericanismo come arma ideologica è proprio perché l’insofferenza all’arroganza di Washington è profondamente radicata nelle popolazioni del Medio Oriente. Teheran e i suoi alleati potrebbero avere adesso gioco facile proprio nel mobilitare la regione contro l’America, rendendo una potenziale nuova guerra più costosa persino per l’amministrazione Trump ma anche mettendo a tacere prima di tutto le rivolte spontanee degli ultimi mesi e catalizzandole in un sostegno di necessità alla propria strategia, contro il rischio di un ennesimo intervento americano in un Medio Oriente già devastato da diciannove anni di guerra al terrorismo.