[ACM_2]L’[/ACM_2]odore di secessione è forte, ma non è questa la strada che la Crimea ha deciso d’imboccare. Non ancora, quanto meno. La notizia che arriva da Sinferopoli, capoluogo della regione, l’unica dell’Ucraina a maggioranza russa, è la convocazione di un referendum sull’espansone del grado d’autonomia amministrativa, già robusto. Una forma di difesa nei confronti «della presa incostituzionale del potere da parte dei nazionalisti radicali, sostenuti da bande armate», ha fatto sapere una portavoce dell’esecutivo locale. S’andrà alle urne il 25 maggio, lo stesso giorno in cui i rivoluzionari di Kiev hanno fissato presidenziali anticipate. Una provocazione. L’esito della consultazione è già da ora scritto: la Crimea s’esprimerà a favore di una forma di autogoverno più larga, in una sorta di replica di quanto avvenne nei primi anni ’90, quando le pulsioni autonomiste crebbero d’intensità.
Questa mossa conferma che il presidente russo Vladimir Putin vede nella regione, dove ormeggia la flotta russa sul Mar Nero, nel porto di Sebastopoli, la più affilata delle armi con cui lacerare le carni del nuovo blocco di potere di Kiev. Vuole sabotarlo. Ma, probabilmente, senza arrivare a partire il paese. Anche perché un conto è favorire la scissione della Crimea, dove si pensa e si parla in russo; un altro dividere il resto del territorio nazionale, dato che il crinale che separa le aree ucrainofone da quelle russofone è sfumato, ambiguo. La prospettiva della spaccatura formale non va tuttavia esclusa. L’Ucraina ha i nervi quasi fuori controllo. In ogni caso la Russia non conta sul solo grimaldello della Crimea. Dispone di altri strumenti di pressione per azzoppare il cambiamento imposto dal nuovo premier Yatseniuk, impedendo di avvicinarsi troppo all’occidente e ponendo le basi per ribaltare, più avanti, il corso di questo confronto.
Innanzitutto il Cremlino può squadernare il ricatto dell’energia. Lo fece già al tempo della rivoluzione arancione, quando tagliò le forniture a Kiev, lasciando scoperta anche una parte dell’Ue. Adesso potrebbe accadere che le tariffe, abbassate già lo scorso dicembre (da 400 a 268 dollari per mille metri cubi), insieme al prestito da 15 miliardi concesso da Putin a Yanukovich (quell’accordo non sussiste più), vengano rialzate. Una possibilità menzionata lunedì scorso dal premier russo Medvedev.
La cosa inciderebbe sulla tenuta finanziaria di Kiev, le cui casse si stanno svuotando e la cui moneta, la hryvnia, sta perdendo valore giorno dopo giorno. Ma l’eventuale rialzo dei prezzi del gas potrebbe causare qualche grana anche agli occidentali, che stanno predisponendo un grosso piano di aiuti all’Ucraina. Si parla di 25 miliardi di euro in due anni. Bruxelles, consapevole che possono lavorare sui rubinetti dell’energia, sta cercando di coinvolgere i russi, suggerendo che dovrebbero accollarsi una parte dell’onere. Non sarà così semplice. Potrebbe darsi che Putin, prima di entrare nella partita del salvataggio, ammesso che lo faccia, attenda che Kiev resti senza più un filo d’ossigeno, così da rivendicare, in cambio del possibile sostegno, qualche dividendo strategico. Nel frattempo potrebbe lavorare l’Ucraina ai fianchi con qualche altra misura fastidiosa, come gli embarghi commerciali. Il piano di Putin per sabotare la rivoluzione nazionalista passa anche dalla propaganda. Non sono soltanto il parlamento della Crimea e l’est ucraino a denunciare il golpe a matrice fascista registrato a Kiev. Le televisioni russe, c’è da presumere dietro veline, insistono molto su questo tasto. Rientra in questo schema la protezione a Yanukovich, . Non si tratta di dare asilo a un alleato quanto sottolineare che a Kiev c’è stato un colpo di stato contro un presidente che era stato legittimamente eletto.