Un leader dello Stato Islamico ucciso dagli Stati Uniti e la controffensiva governativa su Palmira coperta dai raid della Russia: la cooperazione militare tra le due super potenze, seppur non ufficiale, è realtà e fa da contraltare a quella diplomatica in corso a Ginevra.

Ieri Washington ha confermato l’uccisione del ceceno Tarkhan Batisashvili, meglio noto come Abu Umar al-Shishani, figura di spicco della struttura politica e militare dell’Isis: una sorta di ministro della guerra o l’equivalente di un ministro della Difesa. È morto dieci giorni fa nella città di Al-Shaddadi, fino a febbraio roccaforte islamista e ora in mano alle Forze Democratiche Siriane. Su di lui pesava una taglia da 5 milioni di dollari.

Un punto a favore del Pentagono visto il ruolo centrale che Abu Umar aveva nella programmazione e gestione delle operazioni in Siria. Ma il Cremlino ne segna qualcuno di più perché, mentre fa bella mostra della buona volontà nella soluzione della crisi siriana, con un piede resta nel paese. Ieri la tv libanese al-Manar riportava dell’avanzata delle truppe di Damasco intorno alla città di Palmira, nel centro del paese. Da giorni l’esercito governativo assedia la città nota per il suo sito archeologico, semi distrutto dalla brutalità islamista, ma ieri ha guadagnato ulteriore terreno grazie al sostegno aereo russo.

Dopotutto il presidente Putin era stato chiaro: il ritiro di buona parte delle truppe e dei cacciabombardieri non significa la fine delle operazioni militari contro i gruppi islamisti in Siria. Lo ha confermato ieri il vice ministro della Difesa, Nikolay Pankov: i raid aerei continueranno. Nelle stesse ore i primi elicotteri e jet rientravano in Russia dove i piloti sono stati accolti da folle festanti.

Fa festa anche l’inviato Onu, Staffan de Mistura: «L’annuncio del presidente Putin nel primo giorno di dialogo siriano a Ginevra è un significativo sviluppo, che speriamo avrà un impatto positivo sul progresso dei negoziati». Molto meno ottimiste e molto più sospettose sono le opposizioni, prese in contropiede da una decisione che toglie agli avversari di Assad (Turchia e Golfo in testa) molte argomentazioni: tra le precondizioni con cui erano stati giustificati i precedenti boicottaggi del dialogo c’erano proprio le operazioni militari russe.

Tra le fila dei soddisfatti si auto-annovera anche il Fronte al-Nusra che ieri all’Afp ha annunciato il via ad un’offensiva su larga scala dopo il ritiro russo: «È chiaro che la Russia è stata sconfitta – ha commentato un comandante del gruppo qaedista – Entro 48 ore al-Nusra lancerà un’offensiva. Il motivo del ritiro è solo uno: i russi sostenevano il regime, ma il regime è stato incapace di tenersi i territori che controllava. Se non fosse stato per gli aerei da guerra russi, saremmo già a Latakia»

Per ora non si sa ancora con esattezza quanti uomini e quanti aerei da guerra resteranno in Siria, di certo la base aerea di Hmeimin a Latakia e quella navale di Tartus continueranno a funzionare. Un ritiro, quindi, parziale ma che darebbe una spinta alle ambizioni russe nella regione: attraverso la partecipazione ai piani internazionali di guerra al terrore, la Russia si cuce addosso la legittimità necessaria ad ottenere la propria consistente fetta di torta mediorientale.

Insomma, con un contingente militare più ridotto, Putin potrebbe ottenere risultati migliori. La “mission accomplished” di cui parlava lunedì sera il presidente russo sta proprio nell’obiettivo centrato del negoziato: le opposizioni sono state portate a Ginevra e gli Stati Uniti condividono con Mosca l’agenda futura.