Al senato doveva essere il giorno delle riforme costituzionali, alla camera del decreto Ilva. Pochi minuti prima dell’apertura di seduta, il capogruppo del Pdl alla camera Renato Brunetta chiede e ottiene la convocazione della conferenza dei capigruppo. Era nell’aria: martedì sera, alla fine dell’assemblea di guerra del Pdl (guerra alla Cassazione che ha fissato l’udienza del processo Mediaset in modo da evitare la prescrizione per Berlusconi), era stata avvertita la presidente Boldrini. Tant’è che il ministro per i rapporti con il parlamento Dario Franceschini si trova già a Montecitorio. Nel frattempo i lavori d’aula del senato slittano di un quarto d’ora e poi cominciano con il capogruppo del Pdl Renato Schifani in piedi a replicare la stessa richiesta. Anticipa che il suo gruppo ha bisogno di riunirsi in maniera urgente. Il presidente dei senatori Pd Luigi Zanda evidentemente è già stato avvertito, non si oppone alla convocazione della capigruppo, ma raccomanda che non si rallenti troppo l’esame del disegno di legge sulle riforme perché, esagera, «all’esito di questa discussione è legato il destino del nostro paese». Il destino del governo, invece, sembra legato a qualcosa di più immediato: ai capigruppo della camera Brunetta affida una richiesta pesantissima: tre giorni di sospensione dei lavori. Come reazione alla imminente decisione processuale su Berlusconi. Agli alleati del Pd viene consegnato anche un prendere o lasciare: accettate o cade il governo. Ultimatum che Daniela Santanchè scolpisce dall’esterno: «Se ci dicono no il governo è finito». Franceschini si alza e va a palazzo Chigi da Enrico Letta, al senato si congela ogni decisione. Viene avvertito il Quirinale.

Un passo indietro. Esattamente un mese fa era stato proprio Franceschini a chiedere la procedura d’urgenza per il disegno di legge sulle riforme. Mossa inedita per una legge costituzionale, che al contrario ha bisogno di tempi lunghi e valutazioni attente. Ma il governo ha legato il suo destino alla promessa di fare le riforme ed è a tutti chiaro che se il primo passaggio del ddl 813 non si concluderà, camera e senato, entro l’8 agosto (poi c’è la pausa estiva) di riforme non si potrà più nemmeno parlare. Probabilmente è già troppo tardi, lo sarebbe di certo saltando tre sedute. E poi la richiesta di velare le assemblee parlamentari in segno di lutto per i guai giudiziari di Berlusconi è troppo anche per un Pd che ha dato prova di sapersi sacrificare alle larghe intese. Zanda rilascia una dichiarazione molto ferma: «Se si tratta di qualche, ma il parlamento non può sospendere i suoi lavori». Eppure nell’agitazione del governo prende piede una mediazione che riconosce ai berlusconiani un diritto di sfogo. Non tre giorni di pausa, ma uno soltanto. Al Pdl, passando per il Colle, viene fatta accettare la mediazione, che comunque paga un tributo alla sfida di Berlusconi alla giustizia. Adesso è il Pd a doversi giustificare.

Va bene l’urgenza sulle riforme, ma primum vivere. La pattuglia (in crescita) dei governisti democratici lavora con la consueta perizia: alla camera sfiora la rissa con i 5 Stelle cadendo in tutte le provocazioni. Zanda è costretto alle contorsioni: una sospensione di «un tempo limitato di poche ore», in realtà un giorno intero, non è una vera sospensione come sarebbe stata la richiesta «irresponsabile» di tre giorni. I democratici si passano la voce: in fondo anche il Pdl aveva detto sì, «qualche settimana fa» a una nostra identica richiesta. Il deputato (franceschiniano) Rosato lo argomenta in aula. Il precedente, dicono, è quello della riunione della direzione Pd del 4 giugno scorso. Ma basta controllare nei resoconti parlamentari per scoprire che quel giorno il senato tenne la sua seduta regolarmente. E anche la camera, mattina e pomeriggio.

La capogruppo di Sel al senato Loredana De Petris critica il compromesso firmato tra Pd e Pdl: «È grave sospendere per un evento esterno all’attività del parlamento. Peraltro, l’evento in questione consiste semplicemente nella calendarizzazione di un’udienza da parte della Cassazione». I senatori del 5 Stelle aggiungono scenografia alla protesta e (i maschi) si tolgono giacca e cravatta «per dimostrare che questo parlamento non è più quello nel quale siamo stati eletti». Negli stessi, convulsi, minuti si aggira nel palazzo Beppe Grillo, che ha concluso una conferenza stampa di ritorno dal Quirinale. Secondo i grillini Napolitano si sarebbe detto contrario a un’approvazione del ddl sulle riforme in pieno agosto.

Più probabilmente il presidente della Repubblica è assai preoccupato sia della tenuta del governo che della sopravvivenza del percorso riformatore, visto che considera le due cose inscindibili. Ne ha parlato martedì, calendario della camera alla mano, con la presidente Boldrini; ne ha riparlato ieri prima con Letta e poi con il ministro Quagliariello. Sulle riforme oggi il senato si produrrà in una vera maratona, possibile anche in notturna, per chiudere in giornata. L’aula resterà chiusa solo per un’ora per dare modo alla giunta per le elezioni di riunirsi. All’ordine del giorno c’è l’ineleggibilità di Berlusconi, ma per fortuna di Letta non sarà una seduta decisiva. È una procedura lenta che per entrare nel vivo avrà bisogno almeno di un altro paio di riunioni. Insomma, si vivacchia. Ma con l’angoscia quotidiana di cosa possono inventarsi i berlusconiani feriti. Nulla di clamoroso, oltre tutto: manifestazioni «locali» del Pdl e sottoscrizione dei referendum radicali sulla giustizia. Così al Pd resta il dubbio di essere caduto in un bluff. In un bluff di Brunetta.