Non avrei potuto incontrare un’attrice così anomala come Monica Vitti che in un luogo assolutamente anomalo come la redazione del settimanale della Federazione giovanile comunista che ho poi diretto per molto tempo. Dovevano essere gli anni ’50, circa la metà, e Monica non era ancora diventata Monica Vitti. Cioè no, ho detto una stupidaggine: era già Monica Vitti, perché lo era già prima e poi lo è restata sempre. Volevo solo dire che non era ancora un’attrice famosa, era appena uscita dall’Accademia di arte drammatica, ma lei non era certo una donna che sarebbe cambiata solo perché famosa, anzi famosissima.

Quello che voleva era non essere una diva. Essere un’attrice è cosa diversa. Aveva già allora, e poi lo ha conservato sempre, un carattere forte e deciso che non si è fatto turbare dall’esser passata da tante esperienze diverse: da protagonista di Shakespeare a teatro, a star della commedia all’italiana, a protagonista di qualcosa che non so nemmeno se posso chiamare soltanto cinema.

Mi sembra riduttivo, perché i film girati con Antonioni – quelli chiamati dell’«incomunicabilità» (L’Avventura, La notte, L’eclissi), ma poi anche Deserto rosso, sono parecchio di più di una pellicola cinematografica che, per straordinaria che sia, raramente riesce ad essere portatrice di una diversa percezione della vita e idea del mondo. Merito di Michelangelo Antonioni, certo, ma non riesco nemmeno ad immaginare chi altro se non Monica avrebbe potuto interpretare quei film.

Tanto è vero che quando Antonioni è morto e sua moglie Enrica mi chiese di scrivere su di lui qualche cosa in un libro collettivo che aveva curato, io scrissi che i suoi film mi avevano insegnato ad essere comunista in modo diverso e migliore, meno rozzo, più attento a una dimensione della persona senza la quale non si capisce nemmeno come è fatta per davvero l’umanità, cioè il mondo che si vuole cambiare. Furono chiamate, quelle narrazioni cinematografiche, anche «i film dell’alienazione», e forse questa definizione spiega meglio come e perché avevano potuto colpire così in fondo una come me, e tanti altri un po’ schematici militanti.

Ancora adesso, passati tanti anni, ricordo con precisione le immagini inusuali dell’Avventura, gli altrettanto inusuali scenari di un’isola come Panarea, allora un altro mondo, sconosciuto agli italiani: ci si arrivava con un traghetto che passava ogni venti giorni e i suoi abitanti erano quasi tutti emigrati in Australia. E così la struggente disperazione intima che si respira nei fumosi scenari ravennati dove venivano costruiti i primi monumenti petroliferi di quella antica modernità. Ecco, anche questo c’era in quei film che Monica ha saputo rendere in modo straordinario: la miseria di un progresso che non coincide con quello umano. Forse volevo dire anche questo quando ho scritto che mi hanno fatto diventare una comunista migliore.

A portarmela in redazione quella prima volta, quando la conobbi, fu Mara Chiaretti, poi diventata, prima di una triste prematura scomparsa, valida regista di documentari. A quel tempo era prestigiosa critica d’arte del mio settimanale, e poiché di Monica Vitti sono sempre rimasta incantata, le sono restata grata per avermela fatta conoscere. Perché è vero che quegli sono gli anni in cui l’immagine dell’attrice cinematografica cambia, non ci sono più «le attricette», ma in tante diventano persone, soggetti. E però Monica resta fra tutte «speciale».

Non era poi così anomala la sua visita in una sede della Fgci, ma questo l’ho scoperto dopo, via via. Quando morì Berlinguer la trovai a fare il picchetto alla bara a via delle Botteghe Oscure, ma anche prima e dopo in occasioni politiche della sinistra. Oggi poi ho letto che a dare la notizia della sua scomparsa è stato, per conto di suo marito, Walter Veltroni.