Il vaccino «made in Italy», sviluppato nel centro di ricerca di Castel Romano con la collaborazione dell’istituto «Spallanzani» di Roma si è ufficialmente fermato l’11 maggio. In quella data, la Corte dei Conti ha negato il via libera al finanziamento di quasi cinquanta milioni di euro destinati a Reithera per portare avanti lo sviluppo del vaccino. In realtà, i problemi del vaccino Reithera non sono scoppiati all’improvviso con lo stop della Corte, di cui non sono ancora note le motivazioni.

Già in molti, tra gli esperti, ritenevano che la strada per il vaccino italiano fosse in salita. Innanzitutto per ragioni scientifico-sanitarie comuni a tutti vaccini a «vettore virale» (oltre a Reithera anche AstraZeneca, Johnson & Johnson e Sputnik V). Come ha spiegato al manifesto l’immunologo e membro del Comitato tecnico scientifico Sergio Abrignani, difficilmente vaccini come questi faranno parte della strategia futura contro il Covid. Il vaccino Reithera sfrutta lo stesso meccanismo dei vaccini AstraZeneca, Johnson & Johnson e Sputnik V: il vaccino viene legato chimicamente a un adeno-virus innocuo ma capace di penetrare nelle cellule.

Dato che con la vaccinazione l’organismo si immunizza anche contro l’adeno-virus, le successive inoculazioni del vaccino possono essere via via meno efficaci. I vaccini a adenovirus potrebbero dunque non essere adatti per i richiami successivi contro le varianti virali, ritenuti necessari dalla maggioranza degli esperti. Anche sulla base di queste considerazioni, la Commissione Europea ha deciso di puntare sui vaccini a mRna (come Pfizer e Moderna) per le forniture del 2022.

Queste considerazioni avevano sollevato dubbi intorno all’operazione condotta dall’allora Commissario Straordinario per l’emergenza Covid-19 e ad di Invitalia Domenico Arcuri: quale interesse nascosto lo spingeva a investire in un vaccino dal dubbio avvenire, mentre ce ne sono altri già autorizzati e di provata efficacia? In realtà, l’interesse di Arcuri era genuino, visto che il fondo Invitalia avrebbe acquisito il 30% della Reithera condividendone il rischio di impresa. Quasi tutti i paesi, d’altronde, hanno investito direttamente nella ricerca di un vaccino.

Tra i nostri vicini, anche la Germania con il vaccino CureVac e la Francia tramite l’Istituto Pasteur hanno provato a metterne a punto uno (con esiti diversi). Sebbene il vaccino Reithera non ci avrebbe reso indipendenti dalle multinazionali farmaceutiche, la nascita di un polo scientifico-tecnologico per la produzione di vaccini innovativi avrebbe rappresentato un volano per la ricerca nel campo biomedico, dopo decenni di tagli agli investimenti e fuga di cervelli. Ai dubbi legittimi intorno all’operazione Reithera si è poi sommata una sorta di «damnatio memoriae» intorno all’operato di Arcuri, funzionale a accreditare l’idea di una presunta discontinuità tra il governo Draghi e il suo predecessore.

Che il vaccino Reithera viaggiasse su un binario morto ancor prima della decisione della Corte dei Conti lo dimostra anche il fatto che la locomotiva era da tempo senza macchinista. Il reclutamento dei volontari, che allo Spallanzani non è mai avvenuto, negli altri centri coinvolti si è chiuso all’inizio di aprile. Quindi l’Istituto Spallanzani aveva deciso già un mese fa di non partecipare alla sperimentazione: una decisione anomala, visto che il coordinatore della sperimentazione era il dirigente medico dello Spallanzani Simone Lanini. Cosa abbia spinto l’Istituto ad abbandonare il progetto però non è chiaro.

Tace, anche con il manifesto, il direttore generale ad interim Francesco Vaia, cui spettava l’ultima parola sull’avvio dei test. E tace anche l’assessore alla salute Alessio D’Amato, che sul vaccino di Castel Romano aveva puntato moltissimo. Non tacciono i ricercatori coinvolti nella sperimentazione dopo aver appreso dai giornali che il loro lavoro finirà in un cestino, indipendentemente dai risultati. Andrea Gori del Policlinico di Milano parla di «occasione mancata», il suo collega del «Sacco» Paolo Rizzardini racconta di «pazienti che si sentono traditi», mentre il primario dell’ospedale di Caserta Paolo Maggi evoca «dettagli oscuri». Entro un mese la Corte dei conti pubblicherà le motivazioni, e forse si capirà se a fermare la ricerca sia stata la scienza o la politica.