Filmare ad altezza di natiche (femminili), è un punto di vista come un altro, si dice che sia un «fantasma» maschile, il culo, di certo – senza generalizzare – è un’ossessione per Abdellatif Kechiche. E se Truffaut diceva che il mondo si misura con le gambe delle donne, Kechiche lo riconduce a quella forma tonda sia quando racconta il corpo femminile umiliato dalle fantasie esotiche occidentali (Venere nera) che nella chiappa schiaffeggiata in un amplesso lesbico (La Vie d’Adele). Mektoub my love: canto uno, tra gli ultimi titoli del concorso veneziano, ne celebra l’apoteosi, un’immersione per tre ore in curvature tonde di donne giovani, meno giovani, pure bimbette africane scandisce il primo capitolo di quella che dovrebbe diventare una trilogia. È lì, sul culo, che l’occhio del cineasta si incolla, tipo la nuca negli epigoni dei Dardenne, e dalla prima scena dichiara il desiderio di tuffarsi in mezzo ai corpi: un giovane uomo e una ragazza fanno l’amore, le pose sono un po’ plastiche però solo guardarli ansimare, sudare, godere, predispone bene visto che ormai al cinema, almeno nei film visti questi giorni, il sesso è diventato decisamente un fuoricampo. Ma il preludio tradisce (o forse era già tutto lì).

I due sono Tony (Salim Kechicouche) e Ophélie (Ophélie Bau), amici da quando erano bambini, amanti clandestini da quattro anni, lui di famiglia tunisina che gestisce un ristorante di cous cous, lei fidanzata da sempre con un altro amico d’infanzia in missione militare. Dalla finestra li ha visti Amin (Shain Boumedine), il cugino di Tony, tornato dopo qualche tempo passato a Parigi, studiava medicina ma ha lasciato, preferisce il cinema e la fotografia, la madre lo rimprovera che sta sempre chiuso al buio invece di uscire, godersi il sole, dimenticare il grigiore parigino.

È estate, siamo a Sète, nel sud della Francia, sulla spiaggia ragazzi, ragazze, vacanzieri vogliono divertirsi, lasciarsi andare al tempo sospeso delle vacanze, agli incontri, gli amori, il sesso. Amin, ritrova gli altri della famiglia, la bella zia Camélia (Hafisa Herzi), Tony è un seduttore sfrontato, Ophèlia ride, le altre, dice, sono solo «coperture» alla loro storia clandestina di cui però tutti sanno. Al mare Tony e Amin conoscono Céline e Charlotte, due ragazze di Nizza, Charlotte perde la testa per Tony, Amin prova con la scatenata e bionda Céline che in una danza accaldatissima gli preferirà un altro meno bello (e pure pieno di peli).

Le mattine sono la spiaggia, le lotte in acqua, la pasta col sugo mangiata tutti insieme, le notti a bere, ubriacarsi, la discoteca, il ballo, le coppie che si formano e si dissolvono, si rimorchia e poi si ricomincia, Tony dimentica presto Charlotte e la ragazza se ne va disperata. Amin partecipa, e osserva, raccoglie le confidenze, soprattutto di Ophélia che di giorno lavora alla fattoria del padre, e con la sua macchina fotografica sa cogliere un istante unico, una luce speciale, un’epifania.

C’è qualcosa di Kechiche nel personaggio del giovane Amin, e non solo perché vuole essere regista, è la sua posizione di «voyeur» che li accomuna, così come l’ascolto e la ricerca di un’immagine e di storie. All’origine del film c’è il romanzo di François Begadeau, La blessure, la vrai, che il regista dice di avere letto più volte, nella distanza narrativa Kechiche dissemina il proprio universo cinematografico, Cous Cous leggiamo sul motorino di Tony parcheggiato nel giardinetto di Ophelia – e allo stesso modo che in quel film, di cui ritrova la protagonista Hafsia Herzi) anche qui tutto ruota intorno a una comunità francotunisina – e il culo di Céleste somiglia moltissimo a quello della Venere ottentotta. C’è un po’ di Kechiche anche in Tony, come lui il regista si appiccica ai corpi in questa madeleine di un’estate del 1994, i veli non esistono tra i maghrebini, e la guerra del Golfo è solo un accenno, la Charles de Gaulle su cui è il fidanzato di Ophélie, e lo stupore che vada a bombardare laggiù. «In quegli anni si respirava una leggerezza maggiore, siamo alla fine di un secolo e questo ci aiuta a capire meglio l’inizio del millennio successivo» dice Kechiche.

Anche se tutto questo è più una «tela di fondo», è la danza dei personaggi che interessa il regista, e soprattutto è esibire, ancora una volta, la donna nel desiderio maschile. È un film di un maschio Mektoub, esplicito, che non c’è nulla di male, per carità, e però – e di nuovo con coerenza rispetto agli altri suoi film – Kechiche dichiarato questo non ci prova nemmeno a spostare il proprio orizzonte. Le ragazze ridono, seducono, piangono, parlano dei maschi, sono scatenate, fanno l’amore tra di loro, condividono le nottate di risate, li vogliono portare a letto senza problemi (vabbé sono russe).

Eppure la libertà che si invoca sempre ha un sapore strano, quello di un moralismo fastidioso che si posa sui corpi, su una sensualità raffreddata e mai desiderante: la macchina da presa non li accarezza, prende le distanze, posandosi sui culi frementi li anestetizza, sono soltanto un vezzo di forma. E infine alle compagne di nottate, Amin dopo avere colto il suo attimo epifanico (l’illuminazione) nella sacralità del parto di una pecora, preferirà i sapori semplici della ragazza cortese che è uscita dal gruppo, seria e solitaria. Le donne della fantasia fanno sempre troppa paura.